Sono certo che qualunque cosa Emilio Ambasz abbia mai disegnato sia pervasa dalla ricerca di uno stato di fluidità permanente, da un concetto dell’esistente come processo di continuo cambiamento. Nel suo lavoro di progettazione architettonica, per esempio, non ci sono quasi mai oggetti che appoggino semplicemente al suolo come accade normalmente in architetture più convenzionali, dove gli edifici tendono ad essere delle cose a sé e basta.
Le creazioni architettoniche di Emilio Ambasz sono un po’ fuori e un po’ dentro la terra. Sono come lastre di pietra che emergono dalla superficie, o fessure che screpolano la terra, piuttosto che tentativi di tenere sotto controllo l’universo attraverso gli strumenti della logica o di un linguaggio convenzionale. La sua è un’architettura che cerca quasi sempre di rappresentare i movimenti interni ed esterni di tutta una estensiva geologia planetaria, riflettendone al tempo stesso attentamente le pulsazioni circoscritte, le esplosioni, le contrazioni, le tempeste, i misteri che sgorgano dalle sue profondità
Mi vengono in mente questi pensieri, quando osservo i suoi edifici per il San Antonio Botanical Gardens, le sue terrazze e la lobby di ingresso per il centro residenziale presso Lugano, il progetto per la Cooperative of Mexican-American Grape Growers, quello per il Center for Applied Computer Research, la casa a Cordoba, così come molti altri suoi lavori. Riflettendo su di essi, mi viene da pensare che gli edifici progettati da Emilio non possono certamente esser definiti monumenti; ancor meno si possono classificare come esercitazioni letterarie. Voglio dire che non sono meri esercizi di composizione architettonica; non sono neanche intellettualismi o astrazioni; e nemmeno si possono catalogare come attentati alla retorica tecnologica. Definirei le architetture di Emilio come progetti propiziatori che cercano di evocare la presenza dell’architettura.
Ciascun elemento dei suoi edifici è un po’ come lo scaramantico veicolo di una scommessa, di un rituale misterioso per propiziarsi una grande divinità naturale. Forse sono parti di una liturgia recitata per chiedere perdono per gli sfregi che quotidianamente infliggiamo al nostro pianeta, o forse sono brandelli di un magico rituale inscenato per ristabilire un’armonia con quelle misteriose sfere astrali che Greci e Indiani da lungo tempo avevano intuito. È un modo singolare di immaginare l’architettura, certo un modo nuovo, particolare, o forse è un modo molto antico. Forse questo approccio nuovo appartiene a quei tempi molto remoti in cui, per individuare il luogo in cui fondare una nuova città, veniva lasciato libero un animale, per esempio un toro, e la città veniva edificata in qualunque luogo in cui il toro dopo un po’ si fosse fermato ad abbeverarsi.
Forse la differenza tra gli antichi riti propiziatori celebrati per assicurarsi il bene del pianeta – e quindi dell’intero universo – e questi nuovi riti propiziatori che Emilio rappresenta oggi, sta unicamente nelle diverse tecnologie e nei gesti diversi cui egli fa ricorso per soddisfare bisogni archetipici. Come pochissimi architetti, percepisce l’emergere di una mitologia tecnologica, pienamente consapevole di ciò che questo comporta. So anche che è molto ben aggiornato e con implacabile precisione e instancabile pazienza è attento a cogliere come pochi fanno le occasioni della tecnologia come un mezzo insostituibile per portare alla luce quel raro evento esistenziale che è l’architettura.
Tutto questo io lo so già, e lo sanno molti altri, così come noi sappiamo che non sono qui le radici della sua grande originalità. La cosa che rende originale Emilio è che, fatto molto raro, la tecnologia per lui è uno strumento per suggerire presenze architettoniche; è che per lui l’evento architettonico, quando si verifica, serve come magico strumento per far emergere l’evento ancora più grande e molto più complesso che è la nostra esistenza spirituale. Mi immagino Emilio Ambasz come un uomo fuori dagli schemi, sul filo del rasoio, e quindi sotto sorveglianza. Me lo figuro come un giovane fantasioso e illuminato, simile a quel vecchio monaco cinese che, prima per mesi, poi per anni, fa ricorso ad antiche tecniche per levigare la superficie di un grande disco di giada verde che gli consentirà, forse, di penetrare al di là del “quotidiano”, o ancor meglio, di collocare anche per un solo istante l’esistenza quotidiana in qualche esaltato contesto architettonico.
Rif: EMILIO AMBASZ ARCHITETTURA E DESIGN,
INTRODUZIONE DI TERENCE RILEY
DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA E DESIGN DEL MUSEUM OF MODERN ART DI NEW YORK
TESTI DI TADAO ANDO, MARIO BELLINI, MARIO BOTTA, FUMIHIKO MAKI, ALESSANDRO MENDINI, ETTORE SOTTSASS
Edizioni Electa