In tempi lontanissimi, ben prima che le parole venissero scritte su pergamena, l’uomo guardava le api con timore e meraviglia. In ogni angolo del mondo, dal bacino del Mediterraneo fino alle foreste amazzoniche, le api erano viste come creature sacre, messaggere degli dèi, spiriti dell’aria e della terra. Le loro danze, i loro canti, la geometria perfetta dei favi erano interpretati come segni del divino. Nella mitologia etrusca, che ci è giunta solo in frammenti e simboli, le api appaiono associate ai riti funerari e alla sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Alcuni studiosi hanno letto nelle raffigurazioni delle tombe etrusche la presenza di esseri alati simili ad api, accompagnatori del defunto verso l’oltretomba, una sorta di guida sottile tra i mondi. Anche nel mondo greco le api erano collegate al mistero della morte e della rinascita. La sacerdotessa di Demetra era detta “Melissa”, cioè ape, e secondo il mito fu un’ape a nutrire il neonato Zeus con miele, nascosto in una grotta per sfuggire a Crono. Le api erano le nutrici degli dèi.
Nel culto orfico, che prometteva un aldilà di luce e consapevolezza, l’anima era spesso paragonata a un’ape: laboriosa, silenziosa, capace di raccogliere nettare dai fiori dell’esperienza. Morire, per questi iniziati, era come tornare all’alveare, al centro del cosmo. In questo contesto di credenze antiche, l’usanza di “dirlo alle api” dopo la morte di qualcuno appare come una naturale prosecuzione del pensiero simbolico: se le api erano anime, o almeno loro interlocutrici, bisognava renderle partecipi degli eventi umani. Dall’altra parte del mondo, presso i popoli aborigeni australiani, le api (in particolare quelle senza pungiglione) sono parte delle storie del Dreamtime, il tempo del sogno originario. In queste narrazioni sacre, le api non sono solo produttrici di miele, ma anche custodi di conoscenze ancestrali, segni viventi del legame tra la terra e i suoi abitanti. L’atto di raccogliere miele era spesso accompagnato da canti e rituali, per non disturbare l’equilibrio spirituale.
Nel cuore della City di Londra, il Conservatory del Barbican Centre è un unicum dove architettura brutalista e vegetazione esotica dialogano con naturalezza. Nato nei primi anni ’80 come parte integrante del complesso culturale, è oggi una grande serra-giardino che avvolge passerelle e pilastri in cemento con fronde lucide, liane e chiome tropicali. L’esperienza è verticale: si osservano chiome e palme dall’alto, si scende tra vasche d’acqua con carpe koi, si percorrono corridoi inondati di luce diffusa.
Il microclima temperato–umido consente la coltivazione di specie tropicali e subtropicali che a Londra, all’aperto, non sopravviverebbero. Il risultato è un paesaggio verde stratificato: felci arborescenti e ficus che accentuano l’altezza della serra, rampicanti che ammorbidiscono le geometrie, palme da sottobosco che colonizzano gli interstizi, collezioni di cactus e succulente in contrasto con gli ambienti ombrosi. Per chi ama la botanica, è un laboratorio di adattamento: substrati ben drenati per le xerofite, irrigazione e nebulizzazione per gli epifiti, gestione della luce filtrata e del ricambio d’aria per ridurre stress e patologie.
Un campo, da qualche parte, appena fuori città. Per milioni di anni è rimasto a dormire sotto una coltre di ghiaccio. Poi arrivò un gruppo di individui dalle mascelle pronunciate, accese fuochi e, su un piedistallo di pietra, sacrificò un animale a divinità sconosciute. Passarono i millenni. Fu inventato l’aratro, qualcuno vi seminò grano e orzo. Il campo appartenne ai monaci, poi al re, quindi a un mercante e infine a un contadino che ricevette un generoso compenso dallo Stato per cederlo a una variopinta processione di ranuncoli, margherite e trifoglio rosso.
Questo campo ha avuto una vita intensa. Durante la guerra, un bombardiere tedesco, fuori rotta, lo sorvolò. Bambini, stanchi di lunghi viaggi in auto, si fermavano ai suoi margini per rimettere lo stomaco. Al calar della sera, qualcuno si sdraiava sull’erba a domandarsi se le luci nel cielo fossero stelle o satelliti. Ornitologi lo percorsero in lungo e in largo con calzini color sabbia, alla ricerca di famiglie di tordi bottaccio. Durante un viaggio in bicicletta attraverso le isole britanniche, due coppie norvegesi montarono le tende per passarvi la notte e, sotto la tela, cantarono Anne Knutsdotter e Mellom Bakkar og Berg. Le volpi osservavano curiose, i topi iniziavano timide esplorazioni. I lombrichi, invece, non lasciavano le loro gallerie.
Imperi dell’Indo è il resoconto dell’audace viaggio solitario lungo il «Fiume dei Fiumi», dalla foce alla sorgente, compiuto da Alice Albinia a ventinove anni: più di tremila chilometri attraverso paesi, panorami e popoli osservati con sguardo empatico, in un pellegrinaggio avventuroso fra tribù pashtun e fuoricasta metropolitani, santuari sufi e fondamentalisti islamici, fitto di incontri con memorabili personaggi il cui destino è fatalmente intrecciato a quello del grande fiume. Le sue rive «hanno attratto conquistatori assetati. Qui nacquero alcune delle prime città al mondo; la più antica letteratura sanscrita dell’India ebbe il fiume al suo centro; i santi predicatori dell’Islam peregrinarono lungo il suo corso».
Traduzione di Laura Noulian
La collana dei casi, 95
2013, 2ª ediz., pp. 493, 35 fotografie a colori e in bianco e nero fuori testo
isbn: 9788845927966
Venezia ha origini antiche che risalgono alla fine dell’Impero Romano, quando le popolazioni delle città romane del Veneto cercarono rifugio nelle isole della laguna per sfuggire alle invasioni barbariche. Tra paludi e banchi di sabbia nacque una comunità che, grazie all’ingegno e alla determinazione dei suoi abitanti, si trasformò nei secoli in una delle potenze commerciali e marittime più importanti del Mediterraneo. Nel 697 fu eletto il primo doge, marcando l’inizio di una forma di governo repubblicano che avrebbe caratterizzato la Serenissima per oltre mille anni. L’indipendenza da Bisanzio e l’abilità nei commerci permisero a Venezia di estendere la propria influenza su vasti territori, dai Balcani fino a Cipro, e di diventare un crocevia di culture, merci e idee tra Oriente e Occidente. Il periodo di massimo splendore si ebbe tra il XIII e il XVI secolo, quando la città dominava le rotte commerciali e si arricchiva di palazzi, chiese e opere d’arte straordinarie. Con la scoperta delle rotte oceaniche e il declino del commercio nel Mediterraneo, Venezia iniziò una lenta decadenza, culminata con la caduta della Repubblica nel 1797 per mano di Napoleone. Passata poi sotto il dominio austriaco, fu annessa al Regno d’Italia nel 1866.
Oggi Venezia è patrimonio dell’umanità e simbolo unico di bellezza, ingegno e fragilità. La sua storia millenaria, i suoi canali, le architetture gotiche e rinascimentali e la sua vocazione artistica ne fanno una delle città più affascinanti e celebrate al mondo. Dietro le facciate eleganti di Venezia si nasconde un mondo meno conosciuto: i suoi giardini segreti. Questi spazi verdi, spesso nascosti da alte mura, sono rifugi di pace e bellezza che raccontano una storia di intimità e armonia con la natura. Nati come oasi private della nobiltà, i giardini veneziani uniscono architettura e vegetazione, con fiori esotici, alberi da frutto e pozzi che richiamano la laguna. Ogni dettaglio, dalle pergole alle fontane, riflette un legame profondo con la città e il suo spirito. Visitare questi luoghi, spesso accessibili solo in occasioni speciali, è un’esperienza unica che invita alla riflessione e svela un lato nascosto di Venezia, dove la bellezza si cela nei dettagli più segreti.
Granaiolo, a lawn garden, a garden with cement lines, a Tuscan house, a forest. I visited it on a May morning, the sun fading and reappearing through the clouds. The green of the lawn and the darker hues of the forest were perfect, gleaming. The rainy spring had favored the chromatic richness of the place. While I was familiar with Granaiolo through publications, as Ippolito Pizzetti often emphasizes, to truly understand a garden, to feel its meaning, its poetics, one must see it, visit it, traverse it. Understanding unfolds gradually; the space moves internally and expands, triggering new perspectives from every vantage point. Parallel bands of converging lines lead toward the forest; right angles, sudden shifts, changes of direction continuously renew the vanishing points. Around the structure, descending horizontal planes, emphasized by concrete borders (a stiffening of the contour lines turning linear) create an effect of expansion, even sonorous, which spreads from the house to the green backdrop of the forest. Conversely, when the view is perceived from the forest, the fragmentation of space into successive planes accompanies the ascent and connects the volumes. One finds oneself immersed in a metatemporal atmosphere, outside any chronological placement, in an infinite space despite being enclosed by tree lines.
Il parco, tra i più vasti della Toscana, venne fatto costruire a metà dell’Ottocento da Ferdinando Panciatichi, sfruttando terreni agricoli attorno alla sua proprietà e una ragnaia di lecci. Vi fece piantare una grande quantità di specie arboree esotiche, come sequoie e altre resinose americane, mentre l’arredamento architettonico fu realizzato con elementi in stile moresco quali un ponte, una grotta artificiale (con statua di Venere), vasche, fontane e altre creazioni decorative in cotto. Il castello ed il suo parco storico costituiscono un “unicum” di notevole valore storico-architettonico e ambientale. Il parco vi contribuisce considerevolmente con un patrimonio botanico inestimabile formato non solo dalle specie arboree introdotte ma anche da quelle indigene. Solo una piccola parte delle piante ottocentesche è giunta ai giorni nostri: già nel 1890 delle 134 specie botaniche diverse piantate alcuni decenni prima, ne erano sopravvissute solo 37.
La Val d’Orcia è una delle aree più suggestive della Toscana, celebre per i suoi paesaggi armoniosi e incontaminati che sembrano usciti da un dipinto rinascimentale. Situata a sud di Siena, prende il nome dal fiume Orcia che la attraversa, modellando dolci colline punteggiate da cipressi, borghi medievali, vigneti e campi coltivati che mutano colore con il passare delle stagioni. Questo territorio, profondamente legato alla tradizione agricola e pastorale, ha saputo mantenere nei secoli un equilibrio raro tra uomo e natura.
Fin dal Medioevo, la Val d’Orcia fu attraversata dalla Via Francigena, la grande via di pellegrinaggio che collegava il Nord Europa a Roma, contribuendo allo sviluppo culturale ed economico dei centri abitati della zona, come Pienza, Montalcino, San Quirico d’Orcia e Castiglione d’Orcia. Pienza, in particolare, è un esempio straordinario di città ideale rinascimentale, voluta da Papa Pio II e progettata da Bernardo Rossellino.
Oggi la Val d’Orcia è riconosciuta come patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO per la sua bellezza paesaggistica e il valore storico del suo assetto rurale. È un luogo che incarna l’armonia tra natura, arte e cultura, amato da artisti, fotografi e viaggiatori di tutto il mondo per la sua atmosfera senza tempo e la sua capacità di suscitare un senso profondo di pace e meraviglia.
Sacks ha saputo trovare un’isola di affinità, di amicizia intellettuale e di genuina e disinteressata erudizione riscoprendo il suo interesse infantile per le piante più antiche al mondo – le felci – e frequentando regolarmente le riunioni dell’associazione che se ne occupa, la American Fern Society. Non stupisce dunque che nel 2000, insieme a una trentina di altri pteridologi più o meno dilettanti, sia partito per una spedizione scientifica informale nella regione in cui sopravvive la più alta concentrazione mondiale di specie di felci – lo Stato di Oaxaca, in Messico – e che abbia tenuto un diario di quei dieci giorni di viaggio.
© 2002 OLIVER SACKS
All rights reserved
ILLUSTRATION © 2002 DICK RAUH
© 2015 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
www.adelphi.it
ISBN 978-88-459-7619-3
Il paesaggio di Fiesole, prevalentemente collinare tra le valli dell’Arno e del Mugnone, rivolto a nord verso l’ampio orizzonte di Firenze e rimasto in vari aspetti arcaico, costituisce un prezioso documento storico, come lo definì Pietro Porcinai: «un palinsesto, una stratificazione di opere (…) come se si avesse davanti agli occhi un libro aperto». In questo scenario i giardini assumono un ruolo fondamentale, la cui forma e struttura risultano intimamente connesse al contesto circostante, dove i cipressi si innalzano accanto alla macchia mediterranea, con lo sfondo offerto dagli oliveti.
Da questo paesaggio unico scaturisce l’idea che comprendere e riconoscere i suoi caratteri fondamentali, rispettandone l’identità, sia essenziale per preservare i valori che arte, storia, cultura e tradizione ci hanno consegnato.
Il cipresso (Cupressus sempervirens), pianta simbolo del paesaggio toscano, ha origini antiche: introdotto in epoca etrusca e poi romana, è stato spesso associato al sacro e al funerario, ma anche utilizzato come albero di confine e di allineamento nei giardini rinascimentali. La macchia mediterranea, composta da leccio, corbezzolo, lentisco e fillirea, rappresenta la vegetazione spontanea tipica delle colline fiesolane; la sua persistenza racconta una storia di adattamento a un clima caldo-secco e di convivenza millenaria con le attività agricole. L’olivo (Olea europaea), coltivato in queste zone fin dall’epoca etrusca, non è solo una coltura agricola ma anche un elemento estetico e identitario. Gli oliveti terrazzati di Fiesole testimoniano l’opera dell’uomo nel modellare il paesaggio, unendo utilità e bellezza.
Fiesole, sin dall’antichità etrusca e poi romana, è stata sede privilegiata di insediamenti e ville suburbane. Il Rinascimento e i secoli successivi hanno consolidato il ruolo del paesaggio fiesolano come luogo di sperimentazione di modelli di giardino che coniugano natura, agricoltura e architettura.
Dobbiamo diventare bambini, se vogliamo raggiungere il sublime». Queste parole, che Rilke scrisse in un testo sull’arte del paesaggio, si possono leggere come il condensato della sua percezione delle cose, di una sensibilità che con lui nasce e con lui muore. Una sensibilità che si esprime con rara intensità in tutti gli scritti offerti in questo volume – raccolti e tradotti da Giorgio Zampa, che di Rilke è stato uno dei massimi interpreti –, attraverso meditazioni e memorie, confessioni e impressioni di viaggio, lettere (come quelle a un giovanissimo Balthus) e visioni oniriche. Una sensibilità che si trasmette al lettore grazie a una prosa tra le più alte del Novecento tedesco, aerea e profonda, lucente e umbratile. Una sensibilità capace di cogliere il riverbero dell’assoluto in ogni oggetto a cui si volge: dall’arte («Proprio dell’artista è amare l’enigma. Ché ogni arte è solo amore riversato sopra enigmi») all’«essenza infantile e portentosa» del poeta, all’erotismo («una cosa affatto incommensurabile che gli uomini non si stancano di aggredire con norme, misure, regolamenti»). E in grado di spingersi «là dove la realtà conosciuta e quella inconoscibile si concentrano in un solo punto, si completano e diventano un unico possesso» – dove l’esteriore e l’interiore formano «uno spazio ininterrotto in cui, arcanamente protetto, resta un solo punto di purissima, profondissima coscienza».
A cura di Giorgio Zampa.
Con una Nota di Marco Rispoli.
Piccola Biblioteca Adelphi, 753
2020, 2ª ediz., pp. 216
isbn: 9788845934896
€ 14,00
“Gli uomini che, in Cina, dal VI al IX secolo, forgiarono lo Zen, furono degli eccentrici, se non addirittura dei contestatori. L’arte è uno degli aspetti che rimisero in discussione, e alcuni di essi furono persino degli iconoclasti. Un atteggiamento analogo lo si ritrova in Giappone, dove lo Zen si radicò nel XIII secolo”.
Quindi il Zen-shu o Buddhismo Zen – dove il termine giapponese Zen, che equivale al cinese Chán, si può tradurre con meditazione – pur essendosi sviluppato nell’ambito della religione buddhista e avendo risentito della più antica scuola filosofica taoista, non era una religione né una filosofia. Esprimeva piuttosto un modo di pensare che determinava, per i suoi adepti, anche un modo essere:
“[lo Zen] mirando all’unione dell’individuo con la natura e ispirando il gusto per la semplicità e la serenità provoca una rivoluzione [anche] nel concetto di giardino”.
La vera conoscenza, secondo i monaci Zen, si raggiunge prendendo coscienza della natura del Buddha che è nascosta in ciascuno di noi, sconfiggendo quindi le preoccupazioni materiali e raggiungendo uno stato mentale di totale serenità, compostezza e distacco. Per raggiungere il risveglio vi sono tre vie: i dialoghi tra maestro e discepolo; la meditazione; le attività manuali. Questi tre percorsi vengono favoriti da luoghi, come i giardini, dove natura e arte possono far scoccare la scintilla della consapevolezza e quindi del satori (illuminazione).
Per gli antichi maestri Zen le pratiche religiose tradizionali e le arti (architettura, scultura, pittura e realizzazione di giardini), della quale erano sovraccarichi i templi cinesi, comportavano, per chi li frequentava, un eccessivo coinvolgimento con il mondo esterno e ostacolavano la ricerca dell’essenza profonda dell’uomo, preso nella sua interezza.
An important skill of Pietro Porcinai was his ability to identify real problems and understand the appropriate procedures, always ahead of his time thanks to a foresight rooted in tested technical foundations. In addition to his early and innate natural talent and professional intelligence, Porcinai also acquired specific training abroad, significantly ahead of others. Without a doubt, he was influenced by the landscape culture of those countries, particularly Germany and Belgium, where he gained experience in cultivation techniques at specialized nurseries.
In Italy, his education intersected with a crucial period in garden art: in 1924, Luigi Dami published Il Giardino Italiano, demonstrating Italy’s primacy in garden art. The native and distinctive nature of the Italian garden, reclaiming its prominence in a field that had become the subject of foreign, especially Anglo-Saxon, studies, culminated in the famous Mostra del Giardino Italiano of 1931 in Florence. This exhibition sought to celebrate Italy’s illustrious past but refrained from opening the path to exploring new modern forms in garden art.
The president of the exhibition’s executive committee was Ugo Ojetti, a supporter of monumental and stylistic architecture. As part of the event, ten ideal models of gardens were recreated, representing a sort of historical journey through the art of Italian gardens. These small scenographic creations also included the English landscape garden, even though it was considered alien to the national classical tradition.
Il Bosco della Ragnaia è un parco boschivo e giardino creato dall’artista americano Sheppard Craige a San Giovanni d’Asso, un piccolo paese in Toscana, vicino a Siena. Anche se alcune parti sembrano antiche, il Bosco è un’opera contemporanea che ha avuto inizio nel 1996 e continua ancora oggi. Sotto alte querce si possono trovare molte inscrizioni che accumulano muschio in attesa di essere notate da un visitatore. Alcune saranno familiari, altre enigmatiche, mentre altre ancora esprimono un senso capriccioso di Sheppard. Tra le costruzioni degne di nota vi sono: L’Altare dello Scetticismo, il Centro dell’Universo, e di un Oracolo di Te Stesso. Il Bosco non offre un senso, ma è, al contrario, aperto a tutte le interpretazioni.
La Certosa di Firenze, conosciuta anche come Certosa del Galluzzo, è un importante complesso monastico situato sulle colline a sud della città, in una posizione panoramica che domina la valle dell’Arno. Fu fondata nel 1341 da Niccolò Acciaioli, potente uomo politico e mecenate fiorentino, con l’intento di creare un luogo di raccoglimento e preghiera per i monaci certosini, seguaci della regola di San Bruno, caratterizzata da silenzio, isolamento e meditazione.
L’architettura della Certosa riflette la sobrietà e la spiritualità della vita certosina, con ampi spazi dedicati alla preghiera individuale, come le celle dei monaci, e zone comuni come il chiostro grande, il refettorio e la chiesa. Nei secoli, il complesso si arricchì di opere d’arte di grande pregio, tra cui affreschi, pale d’altare e arredi liturgici, opera di artisti come Pontormo e Bernardino Poccetti.
La storia della Certosa è stata segnata da numerosi cambiamenti. Durante il periodo napoleonico, come molte istituzioni religiose, subì la soppressione e la dispersione di parte del patrimonio. Dopo la Restaurazione e soprattutto con l’Unità d’Italia, fu affidata a diverse congregazioni religiose. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, fu abitata da una comunità di monaci cistercensi, che ha mantenuto viva la tradizione spirituale del luogo.
Oggi la Certosa di Firenze è non solo un centro religioso, ma anche un importante sito culturale e turistico. Il complesso è visitabile e offre ai visitatori l’opportunità di immergersi in un ambiente di grande bellezza, silenzio e contemplazione, testimone della profonda spiritualità che ha attraversato i secoli.