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ITINERARI DI ARCHITETTURA | SVIZZERA VILLA TURQUE © ALESSIO GUARINO cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper cdn_helper
Itinerari di Architettura | La Chaux-de-Fonds, Svizzera

Villa Schwob / Villa Turque

La quarta delle abitazioni firmate da Le Corbusier, che la ritenne anche tra le prime sue realizzazioni degne della pubblicazione sull’Esprit Nouveau, la villa Turque fu realizzata nel 1912-16 su commissione dell’industriale Anatole Schwob, ricco fabbricante di orologi, e sintetizza magistralmente il nuovo corso intrapreso dall’architettura lecorbusierana in quel periodo: la struttura è in cemento armato, mentre il rivestimento epidermico in mattoni. Partendo dalla «casa bottiglia» in cemento, ricca di riferimenti alla poetica del maestro Auguste Perret, Le Corbusier pone infatti «delle facciate con terrazzi e alla francese, ma in cemento armato»: ottiene così lo «scheletro di cemento armato in poche settimane e lo riempie di deliziosi mattoncini a vista».

Nella maison Schwob, che come osservato dai critici Tafuri e Dal Co costituisce un «episodio ambiguo, ma gravido di implicazioni», Le Corbusier giustappone poi un volume cubico tagliente, che conquista lo spazio con estensioni curvilinee dalla forma absidale e semicilindrica e che denuncia con il suo rigore cartesiano il definitivo mutamento di indirizzo rispetto alla maniera vernacolare degli esordi: tale elemento, «incongruo e al tempo stesso […] oscuramente profetico» secondo il Biraghi, reca sul fronte strada una parete liscia, intonacata di bianco, delimitata da tre corsi di mattoni in laterizio e da aperture dalla sagoma ellittica. Vi è anche una terrazza, cinta da una «grande cornice, come uno spazio per i fiori». Si ottiene così un’abitazione che, pur essendo per molti versi moderna, conserva un certo aspetto turco, donde il soprannome attribuitogli («villa Turque», per l’appunto).

Fulcro distributivo della residenza è il salotto a doppia altezza, che si apre verso l’esterno con una grande parete vetrata rivolta verso il giardino: attorno a questo grande vuoto si dispongono infine le altre stanze, con la cucina confinata lungo la parete verso la strada e i servizi compressi tra le scale e gli altri ambienti abitativi. Per quanto concerne la distribuzione, in un certo senso, la villa Schwob può essere accostata alla casa di Diomede, villa suburbana di Pompei che Le Corbusier ebbe modo di ammirare nel corso del suo viaggio in Italia: con questa sua realizzazione, in effetti, Jeanneret intendeva trascrivere nel suo programma architettonico anche le suggestioni vissute durante le sue peregrinazioni europee. Scrisse lo stesso architetto:

«Mi dedico a opere serie, anche sagge, cioè a dipinti che siano almeno la continuazione della mia villa Schwob … Ma la mia attenzione è fissa sul Partenone e su Michelangelo … Un’arte priva di debolezze. E la sensualità imbrigliata: modello ancora una volta; il Partenone, questo dramma» Le Corbusier

Charles-Edouard Jeanneret, architetto ancora alle prime armi e artista in divenire, manifestò molto presto il desiderio di raggiungere traguardi ambiziosi e il desiderio di lasciare dietro di sé le tracce significative di questo sforzo, più durature della sua esistenza terrena: ” Che la vita abbia uno scopo e non che la vita sia solo una freccia lanciata verso la morte”, scrisse ai genitori nel 1910.

Divenuto Le Corbusier, senza eredi diretti e guidato dal timore che gli archivi e le opere da lui accuratamente conservate andassero dispersi dopo la sua morte, si sforzò negli ultimi quindici anni della sua vita di concepire e realizzare strumenti, fin nei minimi dettagli , il progetto di una Fondazione che portasse il suo nome.

Già nel 1949, in una lettera inviata all’amico Jean-Jacques Duval per il quale costruì la fabbrica di Saint-Dié, scriveva: Puoi rompere la tua pipa in qualsiasi momento della vita. Ne parlavo con mio fratello, che è venuto a passare qualche giorno qui. Ho preso accordi, d’accordo con mia moglie, per lasciare in eredità ai poveri ciò che possiedo.
Ora, quello che ho può fare carta bruciata, o meglio. Ho qui, 24 rue Nungesser et Coli (e anche 35 Sèvres in una cantina) archivi considerevoli e sfaccettati: disegni, scritti, appunti, diari di viaggio, album, ecc. Qualche delinquente non dovrebbe poter venire a saccheggiare senza sparare un colpo e cancellare serie che valgono perché raggruppate.
Insomma, i miei archivi dovranno essere un po’ studiati per renderli utili (da vendere o da regalare a persone, istituzioni, musei).
Conclusione: lo scopo di questa lettera è quello di mettervi la pulce nell’orecchio e di chiedervi – quando sarà giunto il momento – di prendere immediatamente possesso, cioè il controllo, dei miei archivi per metterli a vostra disposizione. dispersione.
E questa presente lettera, con la mia firma, serve come documento formale a tutti gli effetti.

Con la mia amicizia e gratitudine.