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“ARTICOLO 9 DELLA COSTITUZIONE. CITTADINI ATTIVI PER IL PAESAGGIO E L’AMBIENTE”

INTERVENTO DEL PROF. SALVATORE SETTIS PER LA LEZIONE INAUGURALE DEL PROGETTO E CONCORSO NAZIONALE.

Roma, Camera dei Deputati, 24.xi.2015

 

E’ per me un onore parlare di Costituzione in una sede istituzionale come la Camera, e davanti a un pubblico in grande prevalenza assai giovane: perché è nei più giovani che deve essere riposta ogni speranza in un futuro degno della tradizione e dell’esperienza storica del nostro Paese. Mi congratulo con gli organizzatori di questo evento, e li ringrazio di aver voluto pensare a me per questa conferenza inaugurale di un ciclo che ha a protagonista l’art. 9 della Costituzione. Un articolo che –come ha detto in un famoso discorso al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente della Repubblica– dev’essere considerato «l’articolo più originale della Costituzione italiana». Perciò è tanto più importante comprenderne la portata progettuale e chiedersi quale possa e debba esserne, oggi e domani, la funzione.

Vorrei tuttavia dichiarare sin dal principio che, a mio avviso, il più grave errore che potremmo commettere parlando dell’art. 9 è di considerarlo come un testo isolato. La nostra Costituzione non è una collezione di perle, ciascuna delle quali (ciascun articolo) abbia un valore staccato dall’insieme, bensì una sapiente e consapevole architettura che delinea un alto orizzonte di diritti, prefigurando un “popolo sovrano” (art. 1) fatto di cittadini che di quei diritti siano consapevoli, e che sappiano e vogliano impegnarsi a difenderli. Perciò cercherò di porre il dettato dell’art. 9 in tre diversi contesti: il contesto italiano della Costituzione, nella quale come vedremo l’art. 9 ha un ruolo- chiave; il contesto, a dimensione europea, della tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico in alcune Costituzioni importanti, soprattutto in Germania e in Spagna; e infine il contesto, a dimensione mondiale, dei diritti delle generazioni future (e intendo per tali non i più giovani fra voi, ma i figli dei figli dei vostri figli).

La Costituzione della Repubblica è un testo che nella presente, difficile situazione del Paese e dell’Europa va richiamato come manifesto di cittadinanza e garante di democrazia. Per questo è importante sapere che la nostra Costituzione è stata la prima al mondo a dare alla tutela del patrimonio culturale (che include i paesaggi) un ruolo di primo piano nell’orizzonte dei diritti del cittadino. Questo è infatti il nerbo e il senso dell’art. 9, che nella Costituzione è tra i principi fondamentali dello Stato: «La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Collegando così strettamente la promozione della cultura e della ricerca alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, la Costituzione (scritta dall’Assemblea Costituente fra 1946 e 1947) non proclama un principio astratto, ma stabilisce una concreta linea d’azione: questo articolo, infatti, non sarebbe mai stato scritto in questi termini, se i Costituenti non avessero inteso espressamente alludere alla pre-esistenza di norme e strutture specifiche preposte alla tutela. Le norme che i Costituenti avevano allora in mente erano le due leggi Bottai, entrambe entrate in vigore nel giugno 1939, la L. 1089 sulla tutela del patrimonio storico-artistico e la L. 1597 sulla tutela del paesaggio. Le strutture pubbliche preposte alla tutela che i Costituenti avevano allora in mente erano le Soprintendenze territoriali, riorganizzate nello stesso 1939. In altri termini, l’espressione «la Repubblica tutela» nell’art. 9 non configura un astratto e vago “dover essere” per un indeterminato futuro; al contrario, designa una situazione giuridica già in essere, e la consacra per il futuro, nel progetto della nascente Repubblica, collocandola al più alto livello (tra i principi fondamentali dello Stato) e collegandola ai diritti essenziali del cittadino.

Come ha scritto un grande giurista italiano, Sabino Cassese, l’art. 9 della Costituzione rappresenta di fatto la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai», e dunque sancisce, con la forza di un principio costituzionale, tanto la presenza di norme specifiche di tutela quanto la necessaria operatività di apposite strutture pubbliche a ciò preposte: ne consegue che l’indebolimento sia delle norme che delle Soprintendenze al quale ci è accaduto di dover assistere in anni recenti, e che alcune parti politiche ancora propugnano, va considerato come un indirizzo politico contrario alla lettera e allo spirito della Costituzione, contrario agli stessi diritti della cittadinanza.

E’ lecito chiedersi come sia mai possibile che una Costituzione nata dalla resistenza al fascismo abbia posto fra i principi fondamentali dello Stato un articolo 9 che si rifà a leggi e strutture volute da un governo fascista. Il fatto è che quelle norme e quelle strutture non ebbero in sé nulla di specificamente fascista, ma seppero in sé riassumere il meglio della tradizione di tutela elaborata dall’Italia liberale. Le due leggi Bottai, infatti, rilanciarono e precisarono la legge Rava-Rosadi sul patrimonio artistico (1909) e quella sul paesaggio propugnata da un ministro della levatura di Benedetto Croce (1920-22); mentre le Soprintendenze territoriali, pur riorganizzate nel 1939, erano state istituite già nel 1907. Insomma, sul fronte della tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio si può constatare una lunga continuità, che affonda le sue radici nelle leggi degli Stati italiani pre-unitari, si dispiega nell’Italia liberale, attraversa il fascismo, raggiunge il suo snodo più significativo e più alto nella Costituzione, e continua ad operare fino al presente, pur tra mille difficoltà, attraverso il Codice dei Beni Culturali, approvato da un governo di centro-destra nel 2004 e poi confermato, con alcune correzioni, da un altro governo di centro-destra nel 2006, e poi da un governo di centro-sinistra nel 2008.

Ma, come già ho accennato, nella sapiente tessitura della Costituzione l’articolo 9 non è isolato: al contrario, esso va letto entro una molteplice rete di riferimenti, in cui ognuno dei principi fondamentali della Carta illumina tutti gli altri, e ne è illuminato. L’art. 9, in particolare, ha un ruolo essenziale per definire la centralità della cultura nell’orizzonte dei diritti del cittadino. Il diritto alla cultura, che include il diritto all’istruzione come strumento di eguaglianza e di democrazia, ha nella nostra Costituzione uno statuto altissimo: cultura, ricerca, tutela contribuiscono al «progresso spirituale della società» (art. 4) e allo sviluppo della personalità individuale (art. 3), legandosi strettamente alla libertà di pensiero (art. 21) e di insegnamento ed esercizio delle arti (art. 33), all’autonomia delle università, alla centralità della scuola pubblica statale, al diritto allo studio (art. 34). Fa parte di quello stesso orizzonte di diritti a cui appartengono il diritto al lavoro (art. 4) e il diritto alla salute (art. 32). Come ha scritto recentemente Tomaso Montanari, l’art. 9 della nostra Costituzione è perciò «una rivoluzione (promessa) per la storia dell’arte»: «assegnando al patrimonio storico e artistico della Nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo, la Costituzione ha spaccato in due la storia dell’arte».

Ma quale è questa «missione nuova», questo nuovo compito per gli storici dell’arte (ma anche per chiunque gestisca il territorio, i paesaggi, l’ambiente)? E’ presto detto: conoscere intimamente il patrimonio culturale e paesaggistico, al fine di farlo conoscere a tutti i cttadini, in modo che ciascuno lo consideri come cosa propria, come appartenenza necessaria alla comunità di cui ciascun cittadino fa parte (e che la Costituzione chiama Nazione). In tal modo, il patrimonio culturale e il paesaggio diventano legante della comunità, garanzia di cittadinanza e strumento di eguaglianza fra i cittadini, dunque di democrazia. Questo (e non può esservi dubbio) il progetto della Costituzione: un progetto che ci affascina e che ci interroga: in che misura, chiediamoci, esso è stato finora attuato? E che cosa si sta facendo perché venga attuato nell’immediato futuro)

La tutela del patrimonio storico-artistico richiede dunque una forte e costante azione conoscitiva, che dipanandosi attraverso la ricerca degli specialisti nel quadro delle istituzioni (Soprintendenze, università, istituti di ricerca) deve mettersi al servizio della cittadinanza. Il diritto alla cultura, che comporta una sorta di presa di possesso da parte dei cittadini di un patrimonio di bellezza e di memorie accumulato nei secoli, si lega in tal modo strettamente alla sovranità popolare (art. 1 Cost.): nella voce dei Costituenti, la comunità dei cittadini, fonte delle leggi e titolare dei diritti, identifica nel patrimonio storico-artistico e nella ricerca che lo riguarda un ingrediente essenziale di democrazia, di eguaglianza, di libertà. Un privilegio della cittadinanza.

Ebbene, questa formulazione così tipicamente italiana, della quale si possono rintracciare radici civili, storiche e giuridiche nella legislazione degli Stati anteriori all’unità nazionale, ha di fatto anche una matrice e un contesto europei. Per rintracciarne la storia, dovremmo entrare in quel gran laboratorio di pensieri e di progettazione del futuro che fu la Costituente: un’Assemblea, è bene ricordarlo, che fu eletta con il compito specifico di dare una nuova forma allo Stato italiano, in coincidenza e in conseguenza del passaggio dalla monarchia alla Repubblica, ma anche e soprattutto dalla dittatura alla libertà e alla democrazia. In quel contesto, l’art. 9 venne proposto all’interno di una più vasta discussione, che coinvolgeva in primissimo luogo la scuola pubblica, intesa come luogo primario di formazione del cittadino, della sua responsabilità, di un oculato equilibrio fra diritti e doveri. Altissima fu l’ambizione dei Costituenti, severissima la loro disciplina intellettuale: su proposta di Giorgio La Pira, furono allora raccolte e tradotte in italiano tutte le Costituzioni del mondo, e i membri dell’Assemblea ne studiarono le formulazioni con l’intento di estrarne il meglio, e di fare della nostraCostituzione la più avanzata e la più organica del mondo, la più adatta ad affrontare le sfide di uno scenario politico mondiale devastato dalla guerra recente e pieno di incognite per il futuro.

La prima ispirazione di quello che è ora l’art. 9 della Costituzione italiana venne dalla Costituzione della Repubblica di Weimar (1919). In essa, l’art. 150 conteneva, all’interno di una sezione sulla scuola e l’educazione, una breve ma chiara prescrizione, secondo cui «i monumenti dell’arte, della storia e della natura, così come il paesaggio, godono della protezione e della tutela dello Stato; è compito dello Stato impedire l’esportazione del patrimonio artistico tedesco». Ora, si può dimostrare, sulla base delle discussioni dell’Assemblea Costituente, che proprio da questo articolo della Costituzione di Weimar prese lo spunto il deputato Concetto Marchesi, grande latinista siciliano e già rettoredell’Università di Padova, per proporre la prima versione di quello che sarebbe stato l’art. 9: «I monumenti artistici, storici e naturali del Paese costituiscono un tesoro nazionale e sono posti sotto la vigilanza dello Stato».

Come si vede, la formulazione è molto vicina a quella della Costituzione di Weimar; inoltre, nella sua relazione alla Costituente Marchesi dichiara espressamente il proprio debito : «nella Costituzione di Weimar del 1919 una intera sezione con nove copiosi articoli (142-150) è dedicata all’istruzione, compresa quella religiosa, e agli istituti di insegnamento». Nella prima formulazione di Marchesi, l’espressione «monumenti artistici, storici e naturali», del tutto estranea alla tradizione giuridica italiana, corrisponde puntualmente alla dizione tedesca (Die Denkmäler der Kunst, der Geschichte und der Natur). Al comunista Concetto Marchesi si affiancò subito nell’Assemblea Costituente un altro relatore che seguirà poi fino in fondo il destino dell’art. 9: il giovane giurista democristiano Aldo Moro.

Da quella prima versione ne derivarono altre 11, fino alla formulazione finale: in quel lungo percorso è meno certa, ma non esclusa, l’influenza della Costituzione della Repubblica spagnola del 1931, peraltro di cortissima vita. In essa, l’art. 45 dette a «tutta la ricchezza artistica e storica del Paese, chiunque ne sia il proprietario» il rango di «tesoro culturale della Nazione», ponendolo sotto la salvaguardia dello Stato, estesa anche ai «luoghi notevoli per bellezza naturale o per riconosciuto valore artistico o storico». Dalla Costituzione spagnola potrebbe forse venire la dizione «tesoro nazionale» nella prima proposta di Concetto Marchesi; ma in ogni caso anche la Costituzione di Weimar adopera l’espressione Kunstschatz, che forse fu comune origine delle formulazioni spagnola e italiana.

Questa piccola costellazione di Costituzioni è la più significativa porta d’accesso al vero tema di questa lezione, che può essere formulato come il rapporto fra tutela dell’arte e del paesaggio e diritti del cittadino. Ma il suo senso non sarebbe completo se non vi aggiungessimo una semplice considerazione storica : la Costituzione di Weimar è del 1919, all’indomani della prima guerra mondiale, quella della Repubblica italiana del 1947, all’indomani della seconda: nell’un caso come nell’altro, la consapevolezza del proprio patrimonio culturale e paesaggistico nasce dal trauma della guerra e della sconfitta. Anche in Spagna, la Costituzione del 1931 corrisponde a un periodo di profondissima crisi istituzionale, politica e morale, che avrebbe condotto ben presto alla guerra civile e alla lunga dittatura franchista. Come nella vita individuale, così anche nelle comunità di cittadini i traumi provocano una drammatica pausa di riflessione, generano consapevolezza, innescano meccanismi di difesa, costringono a ripensare il passato e a immaginare un futuro migliore del presente che ci opprime. Il dolore della perdita, come quello della morte, è un momento di focalizzazione suprema dei meccanismi sociali, mette allo scoperto quel che prima era celato e lo proietta oltre l’ostacolo, verso il futuro, Come ha scritto Orhan Pamuk,

«A quanto pare non è possibile scoprire il segreto delle cose senza avere avuto il cuore spezzato. Dobbiamo umilmente sottometterci a questa definitiva, segreta verità».

Richiamare precedenti storici e giuridici che possono parerci remoti (come queste Costituzioni del 1919, 1931, 1948) non vuol dire, dunque, distrarsi dalle urgenze del presente. E’ vero, anzi, il contrario. E non perché, come vuole un detto famoso, «la storia è maestra della vita». Ma anzi perché, al contrario, «la vita è maestra della storia», come ammoniva nel 1916 un grande storico italiano del mondo antico (Gaetano De Sanctis): sono le urgenze del presente che ci spingono a rileggere le vicende del passato non come mero accumulo di dati eruditi, non come polveroso archivio, ma come memoria vivente delle comunità umane. La consapevolezza del passato può e deve essere lievito per il presente, serbatoio di energie e di idee per costruire il futuro.

E il presente non è meno carico di minacce di quanto lo fossero gli anni di guerra che i nostri padri e i nostri nonni hanno vissuto in prima persona. Gli eventi recenti, in particolare quelli di Parigi, ricordano da vicino l’alta riflessione di un artista, Alexander Sokurov, che nel suo film Francofonia, presentato alla mostra di Venezia lo scorso settembre e che vi invito a vedere, sceglie a protagonista il Museo del Louvre, sintesi della memoria storica dell’Europa, e mostra il continuo intrecciarsi di due piani narrativi: da un lato, il difficile rapporto, negli anni dell’occupazione tedesca di Parigi, tra il direttore del Louvre (Jacques Jaujard) e un alto ufficiale tedesco (Franziskus Wolff-Metternich), che di fatto collaborano per salvare le collezioni del museo; dall’altro lato, però, il dialogo tra il regista e un suo ipotetico amico, Dirk, che fuggendo da un’Europa in fiamme trasporta attraverso il mare in tempesta i tesori del Louvre ammassati dentro dei containers. Ma sarà invano: l’oceano inghiottirà, con la nave, i capolavori di Leonardo, di Caravaggio, di Rembrandt. E con essi non solo la nostra memoria e la nostra storia, ma anche la sostanza e l’anima del nostro essere davvero cittadini d’Europa.

Chiediamoci dunque, in modo ancor più esplicito: perché dobbiamo preoccuparci di salvaguardare il nostro patrimonio artistico? In uno sguardo d’insieme, la costituzionalizzazione della tutela in alcuni Paesi si lega strettamente a una riflessione etica, giuridica e politica sui diritti del cittadino e sulla nozione di cittadinanza, con il connesso equilibrio di diritti e di doveri e il rapporto, esso pure necessario, fra l’esercizio dei diritti civici, l’eguaglianza e la democrazia. È per questo che alcune Costituzioni del Novecento (in ordine storico: Germania, Spagna, Italia) hanno incluso la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico fra i principi di ordine generale che devono essere rispettati dai cittadini e dalle istituzioni. E la Costituzione italiana, che ha fra tutte la formulazione più matura e pone la tutela fra i principi fondamentali dello Stato, rappresenta il culmine di questa evoluzione. Tale evoluzione, però, non si ferma qui, anzi include oggi, anche se con marcate differenze di linguaggio, molte altre Costituzioni. Cito in Europa solo quelle dove la formulazione è più incisiva: il Portogallo e Malta, ma anche Svizzera, Grecia, Lituania, Polonia. Aggiungo, in America Latina: Costarica, Bolivia, Uruguay, Perù, Salvador, Ecuador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Paraguay, Cuba, Brasile. Questo movimento per la costituzionalizzazione della tutela è la fase culminante di un lungo processo, nel quale le norme di tutela del patrimonio artistico e del paesaggio si sono lentamente diffuse nel mondo. All’indomani della seconda guerra mondiale, meno del 30% dei Paesi avevano in questo ambito una qualsiasi normativa; oggi, quasi tutti i Paesi ce l’hanno. Ma pochi italiani sanno che questo movimento ebbe origine in Italia, o meglio negli antichi Stati italiani, ben prima che l’Italia raggiungesse la propria unità politica.

Stentiamo molto, nell’Europa di oggi, a trovare una qualche unità culturale, anzi troppo spesso ci accontentiamo del miope orizzonte delle economie, della finanza e dei mercati, quasi che nel denaro e nei suoi movimenti debba esaurirsi tutta la realtà e tutta l’umanità. Nell’Europa che vorremmo, sintonie culturali fra un Paese e l’altro che abbiano una portata così significativa come quelle tra vari Paesi sul terreno della tutela dell’arte e della bellezza sono una ricchezza enorme e sconosciuta. Non possono essere valutate in Borsa, non possono ridurre lo spread fra l’uno e l’altro dei Paesi europei; ma possono dare un grande contributo a definire un nuovo orizzonte dei linguaggi e dei diritti dei cittadini d’Europa, superando la logica identitaria delle singole nazioni, dei singoli stati, dei singoli ambiti linguistici e culturali. Possono operare in favore di una nuova lungimiranza, che sappia estendersi nello spazio a tutta l’Europa, e nel tempo dalla memoria delle generazioni passate alle aspettative e ai diritti delle generazioni future. In questo intenso dialogo che si annoda intorno alle civiltà figurative europee, l’Italia non è sola. Essa ha sempre avuto, con altre culture europee, un ruolo di co-protagonista di una più ampia e varia conversazione, nella quale potrebbe e dovrebbe contribuire oggi a innestare un ingrediente quanto mai necessario: la piena consapevolezza della radice e del significato civile della cultura e delle arti (dunque anche della storia dell’arte) come strumento di cittadinanza, garanzia di democrazia, veicolo di eguaglianza e di libertà.

L’Europa è figlia di una complessa tradizione, dove accanto alla matrice greco-latina e a quella cristiana prende un posto notevolissimo il radicale ripensamento delle categorie della sovranità e del bene comune innescato dalla Rivoluzione francese. Se ne fa eco un grande filosofo tedesco, Hegel, nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto (1820):

«I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, vale a dire, più propriamente, come avviene alle opere d’arte in generale quando sono utilizzate, così anche i monumenti pubblici, finché sono abitati dall’anima della memoria e dell’onore, hanno il valore di fini viventi e autonomi. Una volta abbandonati da quest’anima, invece, essi divengono in questo senso, per una nazione, possessi privati, adespoti e accidentali».

In questo testo densissimo si avverte quella concezione alta e nobile del patrimoine national che nacque tra Rivoluzione e restaurazione e che fu forza motrice della nuova università e della nuova ricerca storica dall’Ottocento al nostro tempo. Per Hegel i due poli convergenti di «memoria» e «onore», con la loro dirompente carica etica, spettano alla collettività dei cittadini, ma presuppongono la forma-Stato, la trama istituzionale e giuridica che deve garantire la proprietà pubblica (cioè del popolo), ma anche il pubblico utilizzo delle opere d’arte e dei monumenti.

Opere d’arte e monumenti saranno «fini viventi e autonomi», per Hegel, se l’armonia fra etica e politica ne garantirà proprietà pubblica e uso generalizzato da parte di tutti i cittadini. Se «l’anima della memoria e dell’onore» fugge dall’orizzonte della vita e della storia, si produce al contrario una radicale perdita non solo di memoria, ma di senso; anche di senso (e di progetto) del futuro. Questa forte esortazione, che nell’Europa di Hegel era vera e lungimirante a livello nazionale, lo è ancor di più nel nostro tempo. Ma nel nostro tempo l’esortazione di Hegel, carica di memoria storica quanto lo è di futuro, riguarda non più solo le nazioni, ma la memoria e l’onore della comunità dei cittadini dell’intera Europa.

Il passo di Hegel ci ricorda che i principi costituzionali (come l’art. 9), per potersi tradurre in concreta azione politica, giuridica e amministrativa, richiedono il riferimento a un sistema di valori che collochi ambiente, paesaggio e patrimonio entro una cornice garantita, quella delle comunità umane, dei loro diritti e delle loro organizzazioni sociali e politiche. Non dobbiamo considerare questi temi come parziali, marginali, “di nicchia”; bensì vederli nel quadro di grandi tendenze del nostro tempo. Penso, in particolare, a una tematica di enorme rilevanza etica, politica e giuridica: i diritti delle generazioni future. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, «oggi è poco probabile che nell’interesse della politica rientri anche la preoccupazione per le generazioni future. Laddove si richiederebbe la virtú della presbiopia, prevale invece l’interesse momentaneo», l’istinto primordiale di divorare tutto e subito. Le devastazioni di ambiente, paesaggio e patrimonio monumentale a

cui oggi assistiamo rendono strettamente attuale una prospettiva imperniata sulle generazioni future, ed è in questo senso che le norme sulla tutela e la loro costituzionalizzazione in Italia e altrove assume un senso profondo e anzi profetico. Al centro dell’attenzione, nella discussione sui diritti delle generazioni future, sono i problemi ambientali oggi assai preoccupanti. Dobbiamo dunque chiederci: ma come mai nell’art. 9 si parla di paesaggio e di patrimonio storico-artistico, ma non di ambiente. Il fatto è che quando la Costituzione fu scritta non si era ancora formata quella cultura ambientalistica che avrebbe trovato crescente spazio a partire dagli anni Settanta, e che oggi diamo per scontata. Ma quando sorsero problemi che richiedevano uno statuto costituzionale della tutela ambientale nessuno propose di modificare la Costituzione: anzi la Corte costituzionale, ragionando sulla convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute (art. 32) ha stabilito che anche la tutela dell’ambiente è un «valore costituzionale primario e assoluto» in quanto espressione di un interesse diffuso dei cittadini, che esige un identico livello di tutela in tutta Italia, come mostra nell’art. 9 il cruciale termine Nazione. La creazione in via interpretativa di questa avanzatissima nozione costituzionale di “ambiente” è la prova provata, se ce ne fosse mai bisogno, di quanto la Costituzione sia lungimirante; e che essa, dunque, non va cambiata, ma interpretata e soprattutto applicata.

Ma che cosa si intende per “diritti delle generazioni future”? Si è svolta su questo punto una discussione molto importante in tutto il mondo; e non è mancato chi sostenga che le generazioni future non hanno diritti perché non possono ricorrere in giudizio contro di noi. Perché una frase come questa ci sembra istantaneamente contraria al senso comune? Perché il fatto che le generazioni future non abbiano la possibilità di ricorrere in giudizio contro di noi non vuol dire affatto che noi non dobbiamo preoccuparci delle generazioni future. Tuttavia, questo principio elementare non ci è abbastanza presente, poiché molte delle decisioni che le nostre società prendono non sarebbero prese se noi avessimo ben presente il giudizio delle generazioni future. Prima di menzionare alcuni recenti orientamenti giuridici in ambito internazionale, vorrei ricordare la convergenza, per così dire “pre-ideologica”, fra pensatori e uomini politici diversissimi, come Adam Smith, Karl Marx e Theodore Roosevelt. Comincio da Adam Smith, in una delle Lezioni di Glasgow: «nessuna massima è piú generalmente condivisa di quella secondo cui la terra è la proprietà di tutte le generazioni; e sarebbe assurdo che una generazione precedente possa limitare l’uso che ne faranno le generazioni successive, poiché la terra appartiene ad esse proprio come appartenne ai loro predecessori, al loro tempo.»

In un contesto che non si potrebbe immaginare più lontano, Karl Marx formula nel Capitale (III, ix, 46) un pensiero non molto diverso: «neppure un’intera società o una nazione, neppure tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, neppure esse sono proprietarie della terra. Ne hanno solo il possesso, l’usufrutto, e come boni patres familias hanno il dovere di tramandarla, migliorata, alle generazioni successive».

Esemplare, e ancora una volta ispirata da simili principi, la frase di un Presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt: «la Terra appartiene alle generazioni che verranno, e quello che noi vi facciamo ora dev’esser misurato sull’intero svolgersi del tempo, nel quale noi, che siamo vivi oggi, non siamo che una frazione insignificante. Dobbiamo dunque impedire che una minoranza senza principî distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno. Il movimento per la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è essenzialmente democratico per spirito, finalità e metodo».

Le citazioni qui allineate a mo’ di esempio mostrano –io credo– che, fondandosi sulla preoccupazione verso le generazioni future, è ben possibile costruire forme di pensiero comune pratico volto all’azione che siano adatte al nostro tempo. Vengo ora a qualche documento della comunità internazionale. Un forte orientamento alle generazioni future ricorre nella Carta delle Nazioni Unite (1946), mirata «a salvare le generazioni successive dal flagello della guerra, che per due volte nell’arco della nostra vita ha portato all’umanità dolori indicibili».

Un importante passo avanti si ebbe con la Conferenza di Stoccolma sull’ambiente (1972), convocata dalle Nazioni Unite: secondo il “primo principio” della Dichiarazione che ne seguí, «L’uomo ha il fondamentale diritto alla libertà, all’uguaglianza e a condizioni di vita adeguate, in un ambiente la cui qualità consenta una vita dignitosa e confortevole. Perciò egli ha la solenne responsabilità di proteggere e migliorare l’ambiente per le generazioni presenti e future». Analogamente, secondo la Carta Mondiale della Natura approvata dall’Onu nel 1982 «l’uomo deve acquisire la conoscenza necessaria a mantenere e accrescere la propria capacità di usare le risorse naturali in modo da garantire la conservazione delle specie e degli ecosistemi a beneficio delle generazioni presenti e future».

Del 1997, infine, è una specifica dichiarazione Unesco Sulle responsabilità delle generazioni presenti verso le generazioni future. Partendo da una grave preoccupazione per la sorte delle generazioni future di fronte alle sfide cruciali del prossimo millennio, in particolare per le minacce all’esistenza stessa dell’umanità e al suo ambiente, essa impegna a «trasmettere un mondo migliore alle future generazioni, [la cui] sorte dipende in gran parte dalle decisioni e misure prese oggi. [Perciò] s’impone l’obbligo morale a operare affinché le generazioni presenti prendano interamente coscienza delle loro responsabilità verso le generazioni future, [i cui] bisogni e interessi devono essere pienamente salvaguardati. [A ogni generazione] che riceve temporaneamente la Terra in eredità, tocca la responsabilità di trasmetterla alle generazioni future vegliando ad utilizzare ragionevolmente le risorse naturali senza compromettere gli ecosistemi, [anzi] preservando la qualità e l’integrità dell’ambiente».

Anche a livello europeo il ruolo delle responsabilità verso le generazioni future si è affermato con forza, a partire dalla Carta di Nizza sui diritti umani fondamentali (2000), che sin dal preambolo dichiara che «il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future». Anche nel Trattato di Roma “per l’adozione di una Costituzione europea” (2004), poi arenatosi per la mancata ratifica di Francia e Olanda, sono menzionate le «responsabilità verso le generazioni future e la Terra», e, fra gli obiettivi dell’Unione, «la promozione della giustizia sociale, dell’eguaglianza fra donne e uomini, la solidarietà fra generazioni e la protezione dei diritti dei bambini».

La centralità ormai indispensabile dell’“imperativo ecologico” ha ulteriormente stimolato il pensiero giuridico: ma ha anche consolidato e rafforzato il legame strettissimo fra i problemi dell’ambiente e quelli del paesaggio e del patrimonio culturale. Cito a esempio il grande costituzionalista tedesco Peter Häberle, che sin dai primi anni Ottanta, di fronte alle nuove sfide del mondo (come la crescita incontrollata del debito sovrano e l’accumularsi di scorie radioattive), aveva denunciato l’urgenza di una radicale assunzione di responsabilità collettiva e istituzionale. Nel suo libro Lo Stato costituzionale Häberle sostiene con eloquenza che lo Stato sociale di diritto è una prosecuzione, congeniale al XX secolo, del vecchio concetto di Stato di diritto; ma aggiunge che, in nome della responsabilità verso le generazioni future, è ormai necessaria un’ulteriore evoluzione, verso lo Stato ambientale di diritto. Come questo mosaico di citazioni (pur casuale e manchevole) dovrebbe mostrare, è oggi davvero necessario un patto generazionale che coinvolga tutti i cittadini, ciascuno con le proprie responsabilità (incluse quelle della progettazione architettonica e della pianificazione urbanistica). In questo patto, le generazioni future devono essere considerate cittadini necessari, presenti da subito nell’orizzonte della moralità, della deontologia professionale e del diritto.

Vi ho parlato di diritti delle generazioni future, ma vorrei citarvi ancora il pensiero di un grande conservatore inglese, Edmund Burke, che rifletteva nel 1790 sulla rivoluzione francese :”Gli uomini che non guardano mai indietro non saranno mai capaci di guardare avanti verso i posteri.” E’ di questa lungimiranza bifronte, volta verso il passato e verso il futuro, che abbiamo oggi terribilmente bisogno. I “diritti delle generazioni future” non sono un’invenzione del nostro tempo. Risuona infatti fortissima, in queste nuove formule del diritto, la voce antica del bonum commune, della publica utilitas, del pubblico interesse come nettamente sovraordinato al profitto privato. E dovremmo sempre ricordarci che il bene comune è il principio ordinatore della nostra Costituzione, che lo definisce come «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Espressioni non coincidenti, ma convergenti, che si integrano l’una nell’altra in una coerente architettura di valori.

Ricordare questi precedenti, queste radici nel diritto romano, nell’Italia comunale o nelle leggi degli Stati preunitari, e poi dell’Italia unita, e infine nella nostra Costituzione, non è vana erudizione. Significa, al contrario, attingere dalla storia le energie e le idee per costruire il nostro avvenire. Perché quando la storia degli uomini si intensifica, quando la catastrofe ci appare imminente, abbiamo più bisogno dei nostri padri. Abbiamo più bisogno di principi in cui riconoscerci: di non soccombere sotto il peso di opposti egoismi, bensì di riaffermare la priorità del pubblico interesse e del bene comune. Questo e non altro è il principio ispiratore della nostra Costituzione: la tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio, che attraverso l’art. 9 vi ha un posto centrale, è dunque un diritto-dovere legato alla democrazia e alla cittadinanza. Per noi oggi, e per le generazioni future. Anziché rinunciarvi come alcuni vorrebbero, l’Italia dovrebbe, forte della sua storia, insegnarlo –come in passato– all’Europa e al mondo.

Salvatore Settis