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Giardini d'occidente e d'oriente | Testo di Pietro Porcinai e Attilio Mordini | Fratelli Fabbri Editore Ed. 1966

Giardini del Giappone

Secondo il mito la storia del Giappone ebbe inizio quando il ponte che univa il Cielo alla Terra fu distrutto e Gimmu Tennò divenne il primo degli imperatori terreni, dopo che per tanto tempo le divinità stesse del Cielo avevano governato, non senza guerra, il paese. Dovette da allora rimanere agli uomini un’insopprimibile nostalgia di quell’aereo ponte che era via al cielo, di quel cielo diventato isola inaccessibile. Forse l’anima del Giappone si chiuse in se stessa come il Giappone entro il suo mare, per essere poi capace di ritrovare nella vita della natura la presenza del paradiso. E da quella mitica nostalgia nacquero i giardini. Quando nel VI secolo d.C. il Buddhismo Zen, importato dalla Cina, si diffonde, non senza ostacoli, nel clima fortemente poetico dello Shintoismo, abbiamo già in atto gli elementi religiosi e psicologici essenziali alla fioritura dei giardini. La religione shintoista, considerata la religione originaria e nazionale del Giappone, insegna a guardare alla natura come veicolo o espressione della divinità o, meglio, delle diverse divinità, siano esse quelle dei monti, delle sorgenti o quelle del vento o del fuoco. Lo Zen era, più che una teoria, un metodo di vita, era meditazione ed esercizio insieme, era il vivere la vita del Tutto entro e al di sopra della propria personalità che in Giappone si traduce e si realizza in termini quasi guerreschi di lotta, di eroico controllo, di rinuncia. Se c’è un tipo di giardini dove ciò che è stato detto in queste pagine sulla loro voluta e necessaria ‘artificiosità’ si fa sommamente evidente come regola e anche come capacità artisticamente creativa, questo è proprio quello giapponese.

È una artificiosità’ che non deve togliere nulla e nulla aggiungere alla ricchezza e alla espressività della natura, ma deve riproporcela, questa natura stessa, dopo averne interpretati e messi in evidenza gli aspetti più significativi come se il `macrocosmo’ dovesse ritrovarsi e riconoscersi nel `microcosmo’. Anche qui, e soprattutto qui, il giardino è come un dipinto per la contemplazione: dall’interno della casa, da un particolare angolo del sentiero o del muro di cinta, in ogni stagione deve offrire bellezza e riposo allo sguardo. Le piante sono in gran parte scelte tra quelle di lenta crescita in modo che la modificazione operata dal tempo sia appena percettibile. L’uso di `educare’ la pianta alle piccole dimensioni, sacrificandone la crescita spontanea secondo l’esigenza paesaggistica, contribuisce a creare prospettive di spazio e a realizzare davvero un microcosmo sensibile. Ma ancora più notevole è la sensazione che qui sono alle case, i giardini più grandi dei samurai con una parte riservata a esercizi militari, e quelli intorno ai templi. Con la predicazione dello Zen i religiosi cercarono la solitudine, e monasteri e giardini fiorirono isolati, presso le montagne, acquistando il carattere raccolto e misterioso che non hanno più perduto. Dal 1338, dopo che Kyôto tornò ad essere il centro politico della vita giapponese, e i samurai presero a proteggere lo Zen, si vennero creando i massimi capolavori che in quest’arte complessa e preziosa i Giapponesi hanno saputo darci.

Anche qui sono pittori, poeti, uomini politici che ne curano l’architettura secondo tre tipi fondamentali: schin, gyo, sô; il primo potrebbe dirsi il più semplice e il più classico, il secondo è semi-classico, il terzo è reso più complesso e più ampio da elementi svariati scelti con più estro e libertà. Profondo e misterioso per le piante lasciate crescere senza limitazione, per il muschio che avvolge anche le rocce emergenti dallo stagno, per il rustico ponte di pietra, è il giardino del monastero Zen di Saihoji vicino a Kyôto. Ma pochi altri potranno, crediamo, uguagliare le bellezze e l’incanto dell’angolo del Daitokuji, anche questo presso Kyôto, dove una composizione di pietre, su un terreno muschioso tagliato da piatte rocce trasversali, riesce a darci il vivo senso dell’acqua che scorre, e a farci contemplare e amare l’acqua più che non lo possa fare essa stessa con la sua presenza reale. Si tratta del genere dei cosiddetti ‘giardini secchi’, Kare san-sui, dove la sabbia finissima e il tappeto di muschio sostituiscono e simboleggiano il piano dell’acqua e le pietre sembrano emergere da un liquido mondo fermo nell’eternità. Il più intenso e significativo tra questi típi di ‘architettura’ è quello del piccolo famoso giardino di Ryoan-ji, presso íl tempio Zen; è quasi una piccola corte di sapore medievale e claustrale; un muretto di cinta, sempre essenziale, ma qui evidentissimo, lascia, o almeno lasciava, vedere oltre di sé un panorama bello di verde e di boschi, in modo da far sentire il dialogo tra lo spazio chiuso, ‘definito’ e lo spazio aperto, da limitare; entro il muro non ci sono che pietre e sabbia bianca. Sono quindici pietre disposte in cin-que gruppi diversi, in una posizione studiatissima e tale che, da ogni punto si guardi, una di queste pietre resti sempre nascosta e se ne possano contare sempre solo quattordici. Chi contempla sente che un significato profondo si cela dietro quella misteriosa ed elegante semplicità e anche all’occhio disabituato dell’occidentale fanno sentire il senso della vita intesa come ascesi forte e pacata. Ma è soprattutto per un altro rito che anche qui, come in Cina, il giardino diventa scenari essenziale: il rito del tè. Paesaggi fatti per essere contemplati dall’interno delle case o dal padiglione divengono così paesaggi da contemplare passo passo, seguendo il tracciato delle pietre disposte per favorire sia il ritmo meditativo sia la visione dei diversi aspetti del parco. Sempre l’acqua scorre simbolicamente da sinistra verso destra, e le pietre sono raggruppate in maniera che quelle più importanti formino un triangolo anch’esso volto coi suoi lati più lunghi e con l’angolo più acuto verso destra; il paesaggio è costruito come in un qua-dro, ma le sue strutture sono qui più varie e complesse.

Ecco il grande giardino del Padiglione dorato e quello, opera di Soami il grande pittore cui forse dobbiamo le bellissime ‘architetture’ di rocce, di Daitokuji, il parco di Giukakui, il cosiddetto Padiglione d’argento. Fu fatto per ordine di Ashikaga Yoshimase, uno dei grandi sovrani della dinastia Aschikaga, nella metà del 1400 ed era il luogo dove il sovrano meditava e dove si celebrava la cerimonia del tè. Raggiunge una bellezza particolarissima in inverno con la neve appena caduta o sotto la luna; forse era fatto proprio per offrire un quadro lunare giacché il tetto del padiglione avrebbe dovuto essere ricoperto d’argento. In epoca moderna si ebbero delle fusioni, non sempre riuscite, col gusto occidentale. Il giardinaggio divenne sia un hobby sia una scienza vera e propria, ed è senz’altro giustificato chiederci quanto possa il carattere aristocraticamente spirituale di questo tipo di giardino resistere agli aspetti e ai bisogni del mondo pratico e borghese di oggi. Però è sicuro che il buon giapponese ha sempre bisogno di sentirsi raccontare da un piccolo mondo formato dalla sua arte il grande poema metafisico e religioso della Terra e del Cielo, il dramma dell’uomo alla ricerca del suo `sé’; e quando non ha di che farsi un giardino, coltiva le piccole piante in un angusto rettangolo di terra e gli resta sempre, come un altro canone la disposizione dei fiori, l’ikebana. 

I GRANDI PAESAGGISTI DEL 900

PIETRO PORCINAI

Un’importante capacità di Pietro Porcinai era quella di individuare i reali problemi e comprendere le procedure idonee, precorrendo sempre i tempi grazie ad una pre-veggenza fondata su basi tecniche sperimentate. Oltre al suo precoce ed innato talento naturale e alla sua intelligenza professionale, Porcinai aveva inoltre maturato una specifica formazione all’estero, in notevole anticipo rispetto ad altri, senza dubbio rimanendo influenzato dalla cultura paesaggistica di quei paesi, in particolare Germania e Belgio, dove aveva fatto pratica di tecniche colturali presso alcuni vivai specializzati. In Italia il percorso della sua formazione si intrecciò con un periodo cruciale dell’arte dei giardini: infatti, proprio nel 1924 Luigi Dami pubblicò II giardino italiano, dimostrando il primato italiano nell’arte dei giardini.

La natura autoctona e caratteristica del giardino italiano, nel riappropriarsi del suo primato in un campo diventato oggetto di studi di stranieri, soprattutto anglosassoni, culminò nella famosa Mostra del Giardino Italiano del 19311 a Firenze, dove si tese alla valorizzazione di un grande passato, senza tuttavia tentare di aprire la strada alla ricerca di nuove forme moderne nell’arte dei giardini. Presidente della Commissione esecutiva’ della mostra fu Ugo Ojetti, sostenitore di un’architettura monumentale e in stile. Nell’ambito della manifestazione furono riproposti dieci modelli ideali di giardini, in una sorta di percorso storico dell’arte dei giardini italiani, concepiti come piccole creazioni scenografiche in cui era presente anche il giardino paesaggistico all’inglese, anche se giudicato estraneo alla tradizione classica nazionale.