Di Bruno Filippo Lapadula

Sembra che oggi gli architetti non abbiano alcuna idea su quello che esiste fuori dagli spazi costruiti. Leggo dalla presentazione di un libro pubblicato di recente:

“Una volta il territorio non urbano era pensato e rappresentato idealmente in aree concentriche: il contado orticolo, immediatamente intorno alla città, poi una vasta zona agricola, di pertinenza urbana più lasca, e poi la foresta (quella «di fuori») e le immense solitudini esterne ed aliene al suo ordine. …

Oggi tutto quel territorio, nel suo complesso – anche se enormemente più segnato dalla presenza della civiltà e della città – viene pensato correntemente come «vuoto» da città e quindi automaticamente come disponibile ad ogni uso. Gli architetti dovrebbero occuparsene, dovrebbero sapere anche di questi luoghi, non solo di edilizia e di città … Una volta individuato un problema fuori dalla città proviamo a vedere se e come sarebbe possibile risolverlo: una progettazione intesa come «servizio». Perchè i futuri architetti sono già formati per progettare ed ogni forma di loro attività viene così condizionata da questo fine …”.

Gli architetti, dunque, ritengono, ancora oggi, che la loro formazione accademica gli consenta di risolvere qualsiasi problema. In questa attività, i cui effetti non sempre positivi sono evidenti a tutti, fanno sempre più spesso riferimento al paesaggio che sembra essere diventato un termine applicabile a ogni tipologia di trasformazione della realtà, a qualsiasi scala sia attuata. Vengono quindi messe a punto vecchie e nuove tecniche di analisi3749, finalizzate alla progettazione, recuperando i lavori oramai classici – come quelli dell’architetto statunitense Kevin Andrew Lynch3750 (1918-1984) sul paesaggio urbano – e moltiplicando le antologie di esempi3751, corredate dalle relative metodologie di analisi che, ogni volta, vengono presentate come universali e definitive. In realtà c’è, invece, una grande confusione di competenze e di capacità professionali.

Sembra che esistano due comportamenti contraddittori e autonomi: uno solo teorico e quindi accademico per degnazione e l’altro solo artistico e per questo non meno accademico, uniti solo nei danni che possono produrre al paesaggio.

Mi è sembrato utile – alla fine di questa storia dei paesaggi italiani – rileggere e commentare alcuni brani dell’articolo Achitektur3752 (Architettura), scritto dall’architetto Adolf Loos – moravo, perché nato a Brno nell’attuale Cechia, ma austriaco di adozione – concludendo con lui un percorso iniziato con un altro grande architetto, l’italiano Carlo Scarpa. In questo testo Loos affrontava, in parallelo, i temi della formazione dell’architetto, del progettare all’interno dei paesaggi naturali e quindi, in definitiva, della trasformabilità degli stessi paesaggi.

Loos è stato uno degli architetti più geniali e raffinati che hanno operato in Europa tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Ribellandosi all’eclettismo dominante e al decorativismo della Jugendstil (letteralmente stile della giovinezza) e della stessa Wiener Sezession (Secessione Viennese), alla quale aveva inizialmente aderito, fu probabilmente il primo vero architetto moderno3753 perché: inventore del Raumplan (piano dei volumi), un metodo per dimensionare razionalmente e incastrare tridimensionalmente gli spazi in un edificio; nemico di ogni forma di decorazione; e sostenitore della bellezza dei materiali naturali e delle superfici pure, per i quali si rifaceva esplicitamente all’architettura giapponese.

Basterà ricordare: il Kärntner Bar (oggi American bar o Loos bar) a Vienna (1907); l’edificio commerciale nella Michaelerplatz, detto Looshaus (Casa Loos), sempre a Vienna (1910-1911); la casa per il poeta romeno Samuel Rosenstock (Tristan Tzara, 1896-1963) a Parigi (1926); ecc. A proposito dell’intervento nella Michaelerplatz lui stesso scrive:

“La mia casa (intendo la «Looshaus» nella Michaelerplatz a Vienna, che fu costruita nello stesso anno in cui fu redatto questo articolo) scatenò un vero scandalo e la polizia comparve sul posto. Fra quattro mura potevo fare quello che volevo, ma certe cosacce non si fanno per la strada!”.

Ricordando Scarpa, sono stati elencati numerosi giardini progettati da lui per ville e musei. Anche la maggior parte delle lussuose abitazioni private, realizzate da Loos, avevano un giardino. La prima, villa Karma a Clarens presso Montreux (1904-1906) in Svizzera, venne bloccata all’inizio dei lavori perché come ha scritto lui stesso:

“Fui invitato a presentarmi alla polizia e mi fu chiesto come io, uno straniero, osassi compiere un simile attentato contro la bellezza del lago di Ginevra. L’edificio era troppo semplice. Dove erano andati a finire gli ornamenti? … Ottenni un attestato dove si vietava la costruzione di un edificio del genere a causa della sua semplicità e quindi della sua bruttezza. Me ne tornai a casa felice e contento”.

Altri edifici con giardino sono per esempio: la casa nella Nothartgasse a Vienna (1913); la casa Müller a Praga (1930). In particolare la casa di campagna Khuner a Payerbach (1930), oltre a essere circondata da una sistemazione a verde, era magistralmente inserita nel paesaggio naturale. Senza dimenticare il progetto (non realizzato) del 1923 per un gruppo di ville, con giardini pensili, in Riviera e tanti altri.

Loos, nel 1922, divenne dirigente dell’ufficio per i nuovi quartieri di Vienna. Oltre a progettare alcune case popolari, si occupò del problema dell’edilizia per gli operai, dimostrando una particolare sensibilità alla loro vita quotidiana che, secondo lui, includeva la presenza e la coltivazione di orti e giardini. Infatti, i giardini, nella sua visione sociale dell’architettura, non dovevano essere più privilegio dell’antica aristocrazia o della borghesia. Nel 1926 Loos, durante una conferenza tenuta a Stoccarda, su Die moderne Siedlung (Il quartiere moderno), illustrò i criteri che dovevano ispirare i progetti per le abitazioni destinate agli operai:

“Che aspetto deve avere quindi un edificio della Siedlung? Cominciamo dal giardino. Il giardino è la cosa più importante, la casa è secondaria. Il giardino dovrà essere naturalmente il giardino più moderno. Deve essere il più piccolo possibile, 200 metri quadrati sono il massimo che il Siedler riesca a coltivare”3754.

Con questa sensibilità, la sua capacità innovativa e la sua intelligenza cosa pensava Loos della trasformazione dei paesaggi dell’Austria, della Svizzera o della sua Moravia?

L’inizio dell’articolo Architettura, scritto nel 1910, l’architetto è volutamente ironico:

“Posso condurvi sulle sponde di un lago montano? il cielo è azzurro, l’acqua verde e tutto è pace profonda. I monti e le nuvole si specchiano nel lago, e così anche le case, le corti e le cappelle”.

Loos ovviamente utilizza, per costruire questa immagine, una concezione percettiva ed estetica di paesaggio. D’altra parte tutto il suo saggio è incentrato sui concetti di bellezza e di cultura.

“Sembra che stiano lì come se non fossero state create dalla mano dell’uomo. Come fossero uscite dall’officina di Dio, come i monti e gli alberi, le nuvole e il cielo azzurro. E tutto respira bellezza e pace …”.

Questa interpretazione – che potrebbe sembrare retorica – corrisponde al pensiero di Claude Lévi- Strauss che ha studiato, con il rigore del metodo scientifico, le culture – soprattutto le altre dalla nostra – e le loro differenze. Recentemente ha scritto:

“Le società studiate dagli etnologi hanno del lavoro un’idea ben diversa [da quella delle società industrializzate]. Esse lo associano spesso al rituale, all’atto religioso, come se in entrambi i casi, il fine fosse quello di intrecciare un dialogo in virtù del quale natura e uomo possono collaborare: l’una concedendo all’altro ciò che lui spera, in cambio dei segni di rispetto o persino di pietà, cui l’uomo si obbliga nei confronti di una realtà collegata all’ordine sovrannaturale.

Ancora oggi sussiste una convivenza tra questa visione delle cose e la sensibilità del contadino e dell’artigiano tradizionali”. Malgrado le opinioni espresse da Loos e da Lévi- Strauss – tra le quali intercorrono quasi 100 anni – oggi è difficile accontentarsi della visione serena e rassicurante di un paesaggio, visto agli inizi del secolo scorso. Troppi cambiamenti sono intervenuti e stanno avvenendo, nel mondo che ci circonda, e oramai sappiamo bene quali problemi può nascondere il suo fragile equilibrio. Allora cosa fare? Ci si deve rifugiare nell’illusione di poter ritornare a mitiche età dell’oro e si deve rifiutare la realtà solo perché è scomoda o non rispecchia immagini stereotipate? ..

Fondazione Aldo Della Rocca
Ente morale per gli studi urbanistici
Collana ricerca e documentazione
7 Giardini e paesaggi nella storia 
Una guida ragionata e bibliografica.

ANTONIO GUARINO, LA VISIONE DI OLIVETTI PER IL SUD. «DIARI», (2010).

SEDE OLIVETTI POZZUOLI

Oggi ad oltre 50 anni della sua realizzazione cosa è rimasto di quello straordinario programma?

Nel VI secolo a.C. approdò sulla costa flegrea, dove oggi c’è la città di Pozzuoli, un gruppo di greci fuggiti dalla tirannia di Policrate. Avevano lasciato la propria patria, l’isola di Samo, diretti verso l’Italia meridionale, dove fondarono una città, Dicearchia, che significa “governo-giusto”.

Dopo 25 secoli – siamo all’inizio degli anni ’50 del ‘900 – altri uomini, provenienti da parti diverse d’Italia, sono arrivati nello stesso luogo con un nuovo compito: contribuire con i loro progetti non solo allo sviluppo del Sud d’Italia, ma anche, umanizzando i processi produttivi dell’era industriale, a dare forma concreta ad una nuova e più giusta relazione tra capitale e lavoro.

Tra questi uomini vanno ricordati tre personaggi che furono protagonisti di quegli anni e che del futuro avevano una grande visione: l’imprenditore Adriano Olivetti, l’architetto Luigi Cosenza e il paesaggista Pietro Porcinai. Lo stabilimento verrà collocato sulla via Domiziana a pochi chilometri da Napoli, lungo quel tratto eccezionale di linea di costa flegrea denominato Arco Felice, dove al magnifico paesaggio dominato dal mare si sovrappone la stratificazione storica sedimentata in millenni di storia.

Afferma Adriano Olivetti il 25 aprile 1955 nel discorso d’inaugurazione dello stabilimento: “La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto”.

Le Corbusier, La Ville Radieuse (1935)

Pubblicato nel 1935 dalle Éditions de l’Architecture d’Aujourd’hui a Boulogne-sur-Seine, La Ville Radieuse rappresenta uno dei testi fondamentali del pensiero urbanistico del Novecento. Dopo aver elaborato le sue prime teorie sulla città moderna in Vers une architecture (1923) e in La Ville contemporaine (1925)

Le Corbusier raccoglie e sistematizza in questo volume un vero e proprio manifesto per l’organizzazione della città nell’era della “civiltà meccanica”. Il libro non è soltanto un trattato tecnico di urbanistica, ma un’opera di carattere teorico e visionario: attraverso schemi, fotografie, disegni e prospettive, l’autore descrive la città ideale come organismo funzionale e ordinato, capace di garantire igiene, efficienza, razionalità e bellezza. La “città radiosa” di Le Corbusier è composta da grandi unità abitative immerse nel verde, da un sistema viario stratificato per separare i flussi di pedoni e veicoli, da spazi pubblici pensati come luoghi di incontro e di vita collettiva. La pubblicazione, realizzata in grande formato e riccamente illustrata, riflette l’intento pedagogico dell’autore: comunicare le sue idee non solo agli specialisti, ma a un pubblico più ampio di amministratori, tecnici e cittadini. Con questo testo, Le Corbusier si pone come figura centrale del dibattito internazionale sull’urbanistica, influenzando profondamente le politiche di ricostruzione e pianificazione urbana del secondo dopoguerra. Oggi La Ville Radieuse resta un documento imprescindibile per comprendere la visione modernista del rapporto tra architettura, città e paesaggio, e continua a sollevare interrogativi sulla validità e sui limiti delle utopie urbanistiche del XX secolo.

ITINERARI DI ARCHITETTURA | PIEMONTE

ARCHITETTURE OLIVETTIANE

La storia dell’impresa Olivetti è la storia della produzione di un’idea organica, declinata quasi in ogni campo del sapere e dell’agire umano. Oggi di tutto quello che è stato resta ancora tangibile il suo essersi concretizzata in manufatti architettonici e raccontare forma e funzione di alcuni tra i più rappresentativi è un modo per rievocare il significato di questa idea. 1941: inaugurazione dell’Asilo nido Olivetti. Gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini applicano alla lettera l’autarchia nella forma di citazione elegante del genius loci di quella città costruita su colli che è Ivrea. Si fanno beffe della retorica dell’architettura littoria disegnando spazi funzionali, articolati in blocchi parallelepipedi, razionalisti, che hanno una pelle in pietra locale. Il giardino che asseconda le curve di livello delle rocce dioritiche, un pergolato i cui pilastri sono tagliati nella foggia dei pali in pietra che reggevano le viti, un tempo abbondanti in quelle terre e la vasca d’acqua, che non c’è più, in cui generazioni di bambini si sono divertiti sotto l’occhio attento delle educatrici. E poi gli interni, con una distribuzione calibrata sulle diverse attività che diventerà un modello e, disegnati appositamente, i giocattoli di legno come l’elefante-scivolo e le grandi ceste con le ruote per trasportare i piccoli ospiti.

ITINERARI DI ARCHITETTURA | VENEZIA

NEGOZIO OLIVETTI

Il negozio Olivetti di Venezia, progettato nel 1957 dall’architetto Carlo Scarpa, è un capolavoro dell’architettura moderna situato sotto i portici delle Procuratie Vecchie in Piazza San Marco. Commissionato dalla Olivetti, questo spazio espositivo rappresenta un perfetto connubio tra innovazione tecnologica, design raffinato e sensibilità artistica. Scarpa ha saputo valorizzare l’ambiente con l’uso di materiali pregiati come il marmo, il vetro e il legno, creando un’atmosfera elegante ed essenziale, capace di esaltare la bellezza degli oggetti esposti.

Uno degli elementi più iconici dello showroom è la scala in marmo sospesa, che sembra sfidare la gravità e testimonia l’abilità tecnica e poetica dell’architetto. Lo spazio è concepito come un ambiente dinamico, in cui la luce e i materiali interagiscono per mettere in risalto le macchine per scrivere e le calcolatrici Olivetti, prodotti che hanno segnato la storia dell’industria e del design italiano.

Oggi il Showroom Olivetti è gestito dal FAI – Fondo Ambiente Italiano, che ne ha curato il restauro e lo mantiene aperto al pubblico come esempio straordinario di architettura del Novecento. Questo spazio non è solo un tributo alla visione innovativa della Olivetti, ma anche un luogo di memoria e cultura, che continua a ispirare visitatori, architetti e designer di tutto il mondo.

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