La tomba Brion è un complesso funebre monumentale, situato lungo l’originale confine del piccolo cimitero di San Vito, nella frazione d’Altivole in provincia di Treviso. Venne progettata e realizzata dall’architetto veneziano Carlo Scarpa su commissione (1969) di Onorina Tomasin-Brion, per onorare la memoria del defunto e amato congiunto Giuseppe Brion, fondatore e proprietario della Brionvega, e conservarvi le sue spoglie, e quelle di alcuni parenti. Il complesso venne eretto tra il 1970 ed il 1978, anno in cui lo stesso Scarpa morì, a seguito di una caduta da una scala in un negozio a Sendai, in Giappone. L’opera venne quindi ultimata sui progetti dell’architetto, che vi fu anche sepolto, secondo quanto richiesto nel proprio testamento, in un punto discreto di congiunzione tra la sua monumentale creazione e il vecchio cimitero del paese.
Il complesso funebre è strutturato a forma di “L ribaltata” ed è composto dai propilei, da un arcosolio, da una cappella, da un “padiglione della meditazione” posto su uno specchio d’acqua e da un’edicola che ospita le tombe dei parenti. I propilei si presentano con una facciata asimmetrica, chiusa a destra da un setto fortemente modellato (simboleggia la forza), mentre a sinistra da una sorta di pilastro (la bellezza).
L’arcosolio è il riferimento visivo di tutti i percorsi possibili all’interno del cimitero: dispone di un ricco tappeto a due file di tessere a scacchi bianchi e neri, la cui linea mediana, l’unica che lascia a destra e a sinistra le luci e le ombre dell’esistenza comune, collega i due feretri. I sarcofagi sono rivestiti con doghe in ebano e nel loro spazio centrale, che solo una persona alla volta può attraversare, due rulli in bois de rose. L’edicola che ospita le tombe dei parenti ha una fenditura continua sulla linea di colmo della copertura: ricorda l’uso di togliere alcune tegole dal tetto della stanza dei morti per permettere alle anime di salire in cielo. La cappella (o tempietto) è situata al centro di una vasca d’acqua nella quale sono collocate forme di calcestruzzo a gradini, quasi a rappresentare le fondamenta affioranti di antichi edifici. Di fianco vi è un piccolo giardino che ospita il camposanto dei parroci del paese. Al centro dell’aula una lastra rettangolare indica la posizione del feretro.
Il padiglione della meditazione si presenta come una scatola a cui è stata “tagliata via” la parte inferiore, appare quindi come sospeso nell’aria e sull’acqua. In realtà è sorretto da esili montanti dal profilo spezzato. Luogo magico e dalla tranquillità mistica è volutamente separato del resto del complesso mediante una porta che si abbassa e scompare nell’acqua, azionata da un complesso sistema di cavi e pulegge nascosto all’occhio del visitatore.
I due cerchi incrociati, simbolo qui ricorrente in grande e in piccolo, sembrano rappresentare due anelli nuziali intrecciati dal vincolo coniugale, ma secondo Vincenzo Maria Mattanò sarebbero desunti dai tre cerchi trinitari dipinti nel Liber figurarum (“Libro delle figure”) di Gioacchino da Fiore, dove simboleggiano rispettivamente lo Spirito Santo (rosso) e il Figlio (blu), mentre altri elementi architettonici ed iconografici dell’intero complesso funebre deriverebbero da altre opere dello stesso Gioacchino.
San Vito fu abitata già in epoca romana. In passato fu spesso chiamata San Vito d’Asolo anziché San Vito di Altivole, ma il nome non deve trarre in errore: in quel periodo si dava tanta importanza ad Asolo e fu associato ad Asolo qualsiasi borgo fosse nei dintorni: Paderno d’Asolo, San Vito d’Asolo. La chiesa parrocchiale di San Vito è un esempio di architettura neoclassica, dall’imponente facciata tripartita da lunghe semicolonne corinzie, sopra le quali poggia un grande timpano dentellato, sui cui vertici campeggiano tre statue di santi. Nel secondo Novecento si lega a San Vito uno dei maggiori architetti italiani, Carlo Scarpa: annessa al cimitero del paese, egli realizza una delle sue maggiori opere: le sepolture della famiglia locale dei Brion. Monumento di grande rilievo artistico, suggestiona il visitatore attraverso l’alchimia dell’acqua, del manto erboso e delle murature delle tombe. Lo stesso architetto è qui sepolto.
Ritroviamo i Cerchi trinitari di Gioacchino da Fiore in una delle più belle opere d’architettura del nostro tεmpo, il complesso monumentale Brion di Carlo Scarpa, progettato e realizzato presso il cimitero di San Vito d’Altivole dal 1969 al 1978, Memoriae Causa, cioè in memoria di Giuseppe Brion fondatore della Brionvega. Due di essi compaiono proprio all’ingresso dell’opera di Scarpa, quale terminazione differita, perché appartenente ad un altro corpo di fabbrica35, di un sentiero austero, interno ad un’architettura dorica, quale connotato eminente delle traspropriazioni oscillanti de l’Ereignis, esaltate peraltro gioachimiticamente, dalla apposizione, sia all’interno che all’esterno, di un tassello bianco nei punti di intersezione dei due grandi cerchi: il rosso a sinistra di chi entra raffigurante il tempo dello Spirito santo e l’azzurro a destra raffigurante il tempo del Figlio.
Un’importante capacità di Pietro Porcinai era quella di individuare i reali problemi e comprendere le procedure idonee, precorrendo sempre i tempi grazie ad una pre-veggenza fondata su basi tecniche sperimentate. Oltre al suo precoce ed innato talento naturale e alla sua intelligenza professionale, Porcinai aveva inoltre maturato una specifica formazione all’estero, in notevole anticipo rispetto ad altri, senza dubbio rimanendo influenzato dalla cultura paesaggistica di quei paesi, in particolare Germania e Belgio, dove aveva fatto pratica di tecniche colturali presso alcuni vivai specializzati. In Italia il percorso della sua formazione si intrecciò con un periodo cruciale dell’arte dei giardini: infatti, proprio nel 1924 Luigi Dami pubblicò II giardino italiano, dimostrando il primato italiano nell’arte dei giardini.
La natura autoctona e caratteristica del giardino italiano, nel riappropriarsi del suo primato in un campo diventato oggetto di studi di stranieri, soprattutto anglosassoni, culminò nella famosa Mostra del Giardino Italiano del 19311 a Firenze, dove si tese alla valorizzazione di un grande passato, senza tuttavia tentare di aprire la strada alla ricerca di nuove forme moderne nell’arte dei giardini. Presidente della Commissione esecutiva’ della mostra fu Ugo Ojetti, sostenitore di un’architettura monumentale e in stile. Nell’ambito della manifestazione furono riproposti dieci modelli ideali di giardini, in una sorta di percorso storico dell’arte dei giardini italiani, concepiti come piccole creazioni scenografiche in cui era presente anche il giardino paesaggistico all’inglese, anche se giudicato estraneo alla tradizione classica nazionale.
L’allestimento del negozio venne commissionato nel 1957 a Scarpa da Adriano Olivetti, il quale aveva rilevato i locali dismessi di una precedente bottega della Piazza. Tale spazio, precisamente collocato nell’angolo sotto il loggiato delle Procuratie Vecchie e il sotoportego del Cavalletto, in prossimità di quello dell’Arco celeste che porta al bacino Orseolo, nei progetti di Olivetti doveva divenire un prestigioso punto d’esposizione e di lancio dei noti articoli per ufficio, richiamando tanto l’attenzione dei clienti quanto quella degli esteti. Infatti, vista l’ubicazione, l’intervento affidato a Scarpa doveva essere realizzato con massima cura e precisione, nonché con profondo rispetto della storica Piazza e dei suoi monumenti.