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Pietro Porcinai

L’Urbanistica come problema sociale in connessione alla organizzazione delle zone industriali.

In senso concreto, il “verde” nell’urbanistica non può certamente limitarsi a ciò che spesso avviene di vedere nei piani e progetti, cioè la mera indicazione, non sul terreno, ma sulle planimetrie, di quel colore in corrispondenza delle aree destinate ad esser piantate ad alberi, a cespugli generici, o a prato. Deve essere invece molto di più.

Anzitutto è bene rammentare che piantando senza precise vedute, od anche chiamando, ad opere eseguite, un giardiniere che infili piante nella terra, l’azione a pro del “verde” sarebbe molto simile a quella di certi ingegneri del passato i quali fatto l’edificio chiamavano l’architetto per fare la facciata.

Ebbene, quando si tratta del verde, oggi, da noi in Italia (ma non solo in Italia) siamo purtroppo proprio al caso della facciata pensata e disegnata a posteriori, dato che ben di frequente le zone verdi o sono lasciate all’abbandono o son fatte piantare a talento dal primo qualunque operaio sedicente giardiniere che capita a portata di mano.

E così facendo, non soltanto le zone verdi vengono ad essere quel che sono cioè spesso cosa miserrima o banale, ma, il che pure conta, vengono a costare enormemente di più, sia come impianto, sia come manutenzione: ne consegue di frequente che – siccome le economie si fanno sempre sulle cose ultime – nulla o poco, alla fine, risulta concretamente a pro delle zone verdi.

Ciò è non solo doloroso, ma anche assurdo, perché, se invece divenisse abitudine operare opportunamente già nella fase di progettazione, già all’inizio dei movimenti di terra (lavoro primo in qualunque costruzione), si arriverebbe agevolmente a realizzare le zone verdi usufruendo delle sole economie ottenute operando in senso logico e razionale.

Per giungere a tanto, architetti, ingegneri e geometri, tutti i costruttori, bisogna che si educhino opportunamente. Oggi, epoca delle zone verdi, non abbiamo invece in Italia nemmeno un corso di studi che a tali costruttori lasci intravedere come le accennate economie d’impianto e manutenzione possano essere realizzate.

Tra i concetti fondamentali, non appare si sappia che la zona verde non può e non deve essere un pezzo di giardino da trasferirsi sopra una data area. Tanto meno, poi, quando trattisi di sistemare col verde uno stabilimento industriale. Quel che occorre invece è creare un insieme di piante che, per l’opportuna scelta ed il voluto collocamento, abbia attitudine a formare un complesso in cui i singoli si tengano a bada reciprocamente, senza, quindi, la necessità del continuo intervento del giardiniere.

Trascurando gli accennati criteri fondamentali le zone verdi vengono a costare molto più del dovuto e, quindi, saranno sempre avversate da coloro che debbono aprire la borsa. Bisogna dunque capire e far capire che operando a dovere le zone a verde sono suscettibili di fortissima economia d’impianto e manutenzione, ripagata abbondantemente dai tanti altri benefici che se ne ricavano, specie nell’ambito dell’industria.

Altro criterio basilare è quello della scelta del terreno.

Determinata la zona in cui, rispetto alle materie prime, mano d’opera, energia e mercati, si considera conveniente far sorgere un impianto industriale, bisogna prima preoccuparsi di scegliere, per la definitiva ubicazione, terreni di minima redditività agraria.

A giustificazione di tale criterio basta riflettere che, in un paese come il nostro, super popolato e povero non solo di materie prime essenziali ma anche di buona terra, è colpevole distruggere appezzamenti di terreno capaci d’esser fonte di vita, quelli cioè dotati della meravigliosa forza che trasforma un seme in un prodotto.

Appare quindi indispensabile e saggio, prima di piazzare uno stabilimento, consultare una carta agrogeologica. Vero è anche, spesso, che la carta non c’è, perché non sempre gli organi governativi si occupano di provvedere a cose che certa burocrazia considera di dettaglio. Ma, anche in tale evenienza, si può supplire con fonti informative locali. Si avverta che consultare i dati del reddito catastale non basta; spesso, terreni a basso reddito possono con lavori opportuni esser messi in valore.

All’area industriale devono invece esser destinati sempre, se possibile, terreni non redditizi sotto l’aspetto agrario.

Ma non basta, che c’è ancora un criterio da tener per guida nella scelta delle aree di complessi destinati all’industria, ed è che l’impianto, una volta realizzato, non danneggi o deturpi l’ambiente naturale, come si verifica, non poche volte, a causa di un cattivo inserimento nel paesaggio, o per causa di esalazioni, rumori, smaltimento di rifiuti ecc.

Già troppo scempio si è fatto sinora a questo riguardo, e in un paese che ha le bellezze del nostro non si può all’infinito continuare la distruzione del paesaggio: in queste distruzioni, colpevoli perché oltretutto per nulla necessarie e invece facilmente evitabili, l’industria, insieme al Genio militare e civile, ha la sua buona parte di colpa.

L’inserimento del complesso industriale nel paesaggio dipende essenzialmente dalla sensibilità dei progettisti. Uno stabilimento brutto è, anche tecnicamente, sempre sbagliato; mentre un insieme ben inserito nel paesaggio è motivo pubblicitario notevole per lo smercio dei prodotti, ed è fonte di piacere per chi lavora, il che, per chi intenda, è cosa della massima importanza.

Studi, pubblicazioni ed esperimenti si vanno moltiplicando sulla efficienza del lavoro razionalizzato, e concordemente si riconosce che non basta creare industrie ottimamente dotate di macchinari attrezzi e arredamenti moderni, se, insieme, non si presta cura all’adattamento all’uomo del posto di lavoro.

Creare al lavoro umano l’ambiente più adatto è oggi dagli specialisti, e dagli industriali più lungimiranti, considerato l’antidoto essenziale alla fatica, alla monotonia, alla spersonalizzazione provenienti dai moderni sistemi tecnici di lavorazione.

L’operaio nell’opificio non è lieto come l’artigiano, specie perché non ha più la possibilità di usare il talento creativo: nello stabilimento industriale moderno, ben ordinato, ben dotato, ben organizzato, l’uomo tende a divenire poco più di un utensile e questo ha conseguenze gravi sulle possibilità di rendimento e, indirettamente, sugli stati d’animo riguardanti socialmente l’intera collettività.

Le zone verdi e il giardino di stabilimento creano un ambiente che nel modo migliore si contrappone al meccanicismo, perché riporta l’animo umano a contatto della natura. Risolvere in un opificio la questione del “verde” vuol dire influenzare beneficamente tutti coloro che lavorano: dal presidente del complesso industriale fino all’ultimo manovale e al più modesto impiegato. L’influsso di un ambiente ben sistemato con popolazione di alberi e piante è incalcolabile e può non solo mutare le sorti di una cattiva giornata, ma essere stimolo favorevole per un’intera esistenza. A tacere i dettagli, si può dire che colà dove tentativi coraggiosi di condurre il giardino e il verde nell’industria sono stati realizzati, si è creata la premessa per un maggiore rendimento del fattore umano e per una più placata convivenza di rapporti.

Zone verdi e giardino di stabilimento debbono essere, s’intende, volta per volta preliminarmente studiati in rapporto alle caratteristiche di luogo, spazio, lavorazione.

Ogni qual volta sia possibile, alla manutenzione del giardino e del verde si destineranno avvicendandoli, gli operai della fabbrica. Se il complesso comprende abitazioni operaie, non si innalzi casa che non abbia il suo piccolo pezzo di terra dove l’operaio possa fare qualcosa a proprio talento, come reattivo alla necessaria disciplina e coordinamento d’officina: sarà questo il mezzo migliore per conservare all’operaio la sua facoltà creativa, a tutto vantaggio del consueto lavoro.

Nell’area dell’abitato operaio non si rinunci poi al terreno comune da destinarsi ai giuochi dei ragazzi. Su questo terreno, anzi, si pongano a disposizione mezzi elementari, pietre, mattoni, pali e simili, con cui alla fantasia dei fanciulli e giovanetti sia possibile “costruire” qualcosa; si hanno all’estero, nei paesi della Scandinavia in specie, esempi altamente significativi di quanto possa ottenersi in fatto di autoeducazione al lavoro dei figli di operai. Liberi di “creare” ciò che a loro più talenta, abituati a risolvere da soli i contingenti problemi che in tali giuochi si presentano, questi ragazzi ricorderanno poi le difficoltà superate e saranno capaci di trarsi d’impaccio ne lavoro di domani, quando a loro volta diverranno operai nell’industria.

Mettere riparo ai danni e molestie che possono derivare da esalazioni e rumori di stabilimento è cosa facile a risolversi con accorgimenti tecnici; per i rumori in specie, non si dimentichi, tra l’altro, il potere assorbente e frangente che hanno le piantagioni opportunamente disposte.

Più complessa è la questione dello smaltimento dei rifiuti di fabbrica, ma anch’essa va programmaticamente risolta all’inizio in modo da non recar danno all’ambiente e ai terreni ed acque all’intorno. Le soluzioni non sono né difficili, né costose; basta affidare la realizzazione a chi ha pratica ed esperienza in materia, ed in Italia c’è chi sa molto al riguardo.

Un argomento, infine, che si aggiunge col suo peso agli altri accennati per consigliare la creazione di zone verdi nell’ambito degli edifici industriali ed ottenere il completo ambientamento di essi nel circostante paesaggio, è quello mimetico. Senza dilungarsi in proposito, basta ricordare che al Congresso internazionale di Madrid, urbanisti e paesaggisti di tutti i principali paesi del mondo votarono concordi un indirizzo ai Governi onde promuovano la creazione, attorno ad ogni complesso industriale, di una cinta alberata, tanto più spessa quanto maggiore sia l’area occupata dagli edifici e dipendenze.

In un mondo senza pace, è questa una misura molto saggia che nessun industriale e nessun progettista di costruzioni industriali deve a cuor leggero ignorare; tanto più in quanto una protezione di verde rispondente agli scopi non è cosa che possa improvvisarsi in un domani deprecabile nel quale incomba una pericolosa necessità.

Riassumendo e concludendo quanto esposto, si può dunque affermare che, per quanto in specie riguarda l’industria e l’urbanistica industriale, il problema del “verde” è innanzi tutto un problema di giusta comprensione e di economia.

Progettare un’industria tenendo presente l’elemento verde può consentire, fin dai primi movimenti di terra, di economizzare notevolmente; si evita di deturpare il paesaggio e si realizza una misura protettiva di mascheramento; si pongono, infine, le basi per creare un ambiente di lavoro adatto al fattore umano, mettendo l’operaio in condizione di produrre di più e d’esser più felice, conservandone più a lungo l’energia psichica di cui benefica il lavoro materiale, e si promuove inoltre la formazione di abitudini e convivenze utili al pacifico rapporto sociale nella comunità.

Perché le nuove costruzioni industriali e le trasformazioni di quelle esistenti siano avviate sopra una via che intenda al giusto valore l’importanza delle zone verdi, bisogna sperare in una azione educatrice che risulti convincente e formativa per architetti, ingegneri, geometri, impresari e committenti. Si potrebbe intanto cominciare con questi ultimi.

Lo Stato, per quanto lo concerne, ed in quanto emanatore di leggi sulla protezione del paesaggio, provveda in modo semplice e chiaro affinché d’ora in poi uno stabilimento industriale sia sempre realizzato con la stessa armonia che risulta dal lavoro dei campi, e ambientato in un paesaggio bello ed armonico.

Si pensi, ad esempio, alla dolce campagna toscana, in cui il lavoro umano nelle opere agrarie è continuazione ammirevole del lavoro millenario della natura.

E, soprattutto, non manchino le volontà, intese a far cosa praticamente e moralmente utile all’economia privata e all’economia dell’intera nazione.

Saggio di Pietro Porcinai presentato al congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica del 1951

Per gentile concessione di Anna Porcinai, Archivio Pietro Porcinai – Via Bandini, 15, San Domenico di Fiesole (FI)

I GRANDI PAESAGGISTI DEL 900

PIETRO PORCINAI

Un’importante capacità di Pietro Porcinai era quella di individuare i reali problemi e comprendere le procedure idonee, precorrendo sempre i tempi grazie ad una pre-veggenza fondata su basi tecniche sperimentate. Oltre al suo precoce ed innato talento naturale e alla sua intelligenza professionale, Porcinai aveva inoltre maturato una specifica formazione all’estero, in notevole anticipo rispetto ad altri, senza dubbio rimanendo influenzato dalla cultura paesaggistica di quei paesi, in particolare Germania e Belgio, dove aveva fatto pratica di tecniche colturali presso alcuni vivai specializzati. In Italia il percorso della sua formazione si intrecciò con un periodo cruciale dell’arte dei giardini: infatti, proprio nel 1924 Luigi Dami pubblicò II giardino italiano, dimostrando il primato italiano nell’arte dei giardini.

La natura autoctona e caratteristica del giardino italiano, nel riappropriarsi del suo primato in un campo diventato oggetto di studi di stranieri, soprattutto anglosassoni, culminò nella famosa Mostra del Giardino Italiano del 19311 a Firenze, dove si tese alla valorizzazione di un grande passato, senza tuttavia tentare di aprire la strada alla ricerca di nuove forme moderne nell’arte dei giardini. Presidente della Commissione esecutiva’ della mostra fu Ugo Ojetti, sostenitore di un’architettura monumentale e in stile. Nell’ambito della manifestazione furono riproposti dieci modelli ideali di giardini, in una sorta di percorso storico dell’arte dei giardini italiani, concepiti come piccole creazioni scenografiche in cui era presente anche il giardino paesaggistico all’inglese, anche se giudicato estraneo alla tradizione classica nazionale.