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GIARDINI E PAESAGGI NELLA STORIA - UNA GUIDA RAGIONATA E BIBLIOGRAFICA - DI BRUNO FILIPPO LAPADULA

IL GIARDINO ZEN

“Gli uomini che, in Cina, dal VI al IX secolo, forgiarono lo Zen, furono degli eccentrici, se non addirittura dei contestatori. L’arte è uno degli aspetti che rimisero in discussione, e alcuni di essi furono persino degli iconoclasti. Un atteggiamento analogo lo si ritrova in Giappone, dove lo Zen si radicò nel XIII secolo”. 

Quindi il Zen-shu o Buddhismo Zen – dove il termine giapponese Zen, che equivale al cinese Chán, si può tradurre con meditazione – pur essendosi sviluppato nell’ambito della religione buddhista e avendo risentito della più antica scuola filosofica taoista, non era una religione né una filosofia. Esprimeva piuttosto un modo di pensare che determinava, per i suoi adepti, anche un modo essere: 

“[lo Zen] mirando all’unione dell’individuo con la natura e ispirando il gusto per la semplicità e la serenità provoca una rivoluzione [anche] nel concetto di giardino”. 

La vera conoscenza, secondo i monaci Zen, si raggiunge prendendo coscienza della natura del Buddha che è nascosta in ciascuno di noi, sconfiggendo quindi le preoccupazioni materiali e raggiungendo uno stato mentale di totale serenità, compostezza e distacco. Per raggiungere il risveglio vi sono tre vie: i dialoghi tra maestro e discepolo; la meditazione; le attività manuali. Questi tre percorsi vengono favoriti da luoghi, come i giardini, dove natura e arte possono far scoccare la scintilla della consapevolezza e quindi del satori (illuminazione). 

Per gli antichi maestri Zen le pratiche religiose tradizionali e le arti (architettura, scultura, pittura e realizzazione di giardini), della quale erano sovraccarichi i templi cinesi, comportavano, per chi li frequentava, un eccessivo coinvolgimento con il mondo esterno e ostacolavano la ricerca dell’essenza profonda dell’uomo, preso nella sua interezza. 

Non avendo però interesse alla trascendenza in quanto tale, si concentrarono sulla natura e sulle semplici attività umane, trasformandole in manifestazioni d’arte. Infatti l’illuminazione non muta il mondo ma consente di apprezzarlo per quello che è realmente. Da qui nasceva l’esigenza di: sviluppare il culto della bellezza; contemplare l’armonia universale, anche nelle cose più semplici e precarie; esprimere, quindi, bellezza e armonia, attraverso forme nuove ed essenziali, in architettura, calligrafia, ceramica, musica, pittura e soprattutto nell’arte dei giardini. 

In Giappone lo stile architettonico e paesaggistico Zen fu introdotto dal monaco, giapponese di nascita ma cinese di formazione, Eisai Myōan (Elisai, 1141-1215) e quindi applicato agli edifici a carattere religioso. Attraverso di esso ben presto: 

“la pagoda comincia a perdere di importanza e, se addirittura non sparisce, sorge fuori dal recinto principale. La dottrina meditativa e contemplativa dello Zen dà la precedenza ad altre strutture entro il recinto centrale: queste possono essere la «sala di meditazione» o persino il giardino, chiamato a dissolvere l’opera architettonica nel paesaggio, in un’ambientazione che contribuisce a coordinare le proporzioni degli edifici secondo una sobrietà di moduli che annullano ogni effetto monumentale”800. 

La maggiore diffusione del Buddhismo Zen si ebbe durante il periodo Muromaki (1392-1568), contraddistinto dal generale apprezzamento dei valori dell’interiorità, della semplicità e della spiritualità. In Architettura vennero realizzati i monasteri della scuola tiāntái e le abitazioni shoin-zukuri (stile della sala con veranda), caratterizzate: dall’estrema semplicità; dall’uso di materiali naturali a vista (legno, carta, pietra, ecc.); dagli spazi interni delimitati da fusuma, shoji e byobu (paraventi pieghevoli); dall’uso di tatami (stuoie), fatti con paglia di riso, per coprire i pavimenti; dall’accurato inserimento delle costruzioni nell’ambiente circostante; dalle pareti con ampie superfici, adatte ad accogliere pitture anche di grandi dimensioni. Infatti un altro aspetto importante di quel periodo fu la sansui-ga (pittura di paesaggio), caratterizzata da rappresentazioni monocromatiche di paesaggi, dipinte dai gaso (monaci pittori) con la tecnica suiboku-ga (inchiostro di china diluito). I più importanti tra questi pittori furono i monaci giapponesi Tensho-Shubun (1414-1463) e Sesshu Toyo801 (1420-1506) che si ispiravano entrambi alla pittura cinese.

Anche nella vita quotidiana la sobrietà – che ben si armonizzava con lo spirito militare e le abitudini austere e, nello stesso tempo, colte e raffinate del samurai – pervase ben presto, oltre all’architettura religiosa e civile, molti aspetti dell’esistenza. 

Furono sempre i maestri Zen a introdurre, successivamente, la cha-no-yū (acqua calda per il tè o cerimonia del tè): 

“Per questa cerimonia fu necessario creare un ambiente adatto, e cioè un padiglione con annesso giardino di tipo particolare, il tutto disposto secondo le norme dettate dai maestri della cerimonia; e questi divennero anche maestri nell’arte dei giardini, ed apportarono nuove idee e notevole originalità nell’impiego di materiali e nella creazione di nuovi elementi. 

Per il suo naturalismo e per l’aspirazione ad una vita semplice, la cerimonia del thè può essere assimilata alla meditazione filosofica dei preti buddhisti della setta Zen, quale questi la praticavano nella solitudine delle montagne; e perciò essa richiede un ambiente pervaso di riposante calma”. 

Il rituale si diffuse e influenzò la progettazione di importanti edifici e giardini, soprattutto nel periodo successivo quando la cerimonia del tè divenne prerogativa di una parte dei membri della antica kuge (aristocrazia di corte), dei ricchi mercanti e degli stessi samurai, che la consideravano segno di spiritualità e raffinata eleganza, in opposizione al gusto dei nuovi gruppi al potere. Quando il daimyō Toyotomi Hideyoshi, unificando il Giappone, aveva dato inizio all’epoca Azuchi-Momoyama (1568-1603), caratterizzata da un’architettura monumentale (castelli e palazzi) di gusto cinese e da decorazioni policrome, persino con influenze europee. La cerimonia del tè803 si affermò, allora, come reazione alla brutalità, all’arroganza e allo sfarzo dei nuovi signori. Fu proprio in quel periodo che il maestro giapponese Sen no Rikyū804 (1522-1591) stabilì le regole della cerimonia nello stile wabi-cha (tè nella semplicità) che doveva avvenire in una chashitsu (casa da tè) con annesso un chaniwa (giardino del tè). 

Sen Rikyū, divenuto maestro del tè di Toyotomi Hideyoshi, fu costretto al suicidio per dissidi di carattere politico e culturale con il daimyō. Malgrado questa drammatica circostanza, i suoi discendenti fondarono le tre principali scuole, ancora esistenti, che devono il nome alla posizione delle loro case rispetto al giardino: la Urasenke (casa Sen esterna), la Omotesenke (casa Sen interna) e la Mushakōjisenke (casa Sen su via Mushakōji). 

C’è un episodio, riferito proprio alla vita di Rikyū, che permette di comprendere come la poesia possa creare, insieme alla grande natura, un giardino. Vicino a Ōsaka, il maestro: 

“fece piantare due siepi che nascondevano completamente il paesaggio, e vicino ad esse fece collocare una vaschetta di pietra. Solo quando il visitatore si chinava sulla vaschetta per prendere dell’acqua nell’incàvo delle mani, il suo sguardo incontrava lo spiraglio obliquo tra le due siepi, e gli si apriva la vista del mare sconfinato. 

… a chi lo interrogava sul perché la siepe, Rikyu si limitava a citare i versi del poeta Sogi: 

Qui un po’ d’acqua. Laggiù tra gli alberi il mare!”. 

Anche nel chaniwa vi erano dei punti di vista predeterminati. Il giardino, per esempio, doveva essere solo osservato dalle finestre della cha-seki (sala) e contenere poche piante per non turbarne l’atmosfera. Successivamente fu sostituito da un viale che prese il nome di roji (sentiero rugiadoso): 

“… gli antichi maestri della cerimonia del tè decisero che per giungere al padiglione dove il tè sarà servito, l’invitato percorra un sentiero, sosti su una panca, guardi gli alberi, attraversi un cancello, si lavi le mani in un bacile scavato in una roccia, segua il cammino tracciato dalle pietre lisce fino alla semplice capanna che è il padiglione del tè, alla sua porta bassa, dove tutti si devono inchinare per entrare”. 

Il luogo deve essere, comunque, isolato e silenzioso, ai margini di un bosco o nell’angolo di un giardino. Il viale per arrivare al piccolo edificio è studiato per preparare psicologicamente gli ospiti. Le lunghe lastre orizzontali di pietra, che spesso lo pavimentano, servono a indicare la via. Ai margini del tracciato vi sono dei piccoli spazi che divengono sempre più ordinati man mano che ci si avvicina alla casa in modo da consentire il raccoglimento. La condizione di austerità e la concentrazione sono favorite anche dall’uso di: piante monocromatiche (sempreverdi e muschio); oggetti come lanterne e tsukubai (piccole vasche per lavarsi le mani); semplici elementi in pietra (lastre tagliate per i pavimenti, le soglie e i gradini), legno (panche, cancelli, ecc.) o metallo; ecc. 

Il chaniwa assume quindi l’aspetto di un accogliente e tranquillo eremo, immerso nel verde. Oggi i più famosi giardini del tè sono il Koho-an (126) e il Juko-in (127), all’interno del complesso Daitoku-ji (118) a Kyōto, e quelli delle scuole Urasenke e Omotesenke. Il primo e più famoso giardino del tè Urasenke è il Konnichian (rifugio di questo giorno) (128) che si trova nella circoscrizione Kamigyo (Kyōto), dove venne realizzato dal maestro giapponese Sen Sōtan (1578-1658) nipote di Sen Rikyū. 

Il complesso Daitoku-ji a Kyōto comprende molti karesansui (giardino di pietre o giardino asciutto). Il solo tempio del Ryōgen-in, costruito nel 1502, ne ha cinque tra i quali: lo Isshi-dan (129); il Ryogin-tei (130), attribuito a Sōami; il Totekiko (131), così piccolo che si limita a rappresentare la caduta di poche pietre nell’acqua. 

Le realizzazioni più importanti, del modo di pensare Zen, si ebbero proprio nei giardini asciutti: 

“[i giardini] adottarono un tipico simbolismo Zen e giunsero a sostituire l’acqua con la sabbia, creando il «giardino asciutto», un’area di terreno ricoperta di sabbia bianca o ghiaia, dove un susseguirsi di lastre simboleggia un guado ed alcune pietre segnano le isole emergenti dall’acqua”808. 

Infatti furono i monaci Zen che: 

“in campo artistico, privilegiarono il giardino come mezzo di espressione”809. 

I giardini in Giappone – prima influenzati da quelli cinesi e poi autonomi – essendo stati, sin dalle loro origini, finalizzati alla contemplazione della natura costituivano un valido precedente per le esigenze espresse dal nuovo modo di pensare. La loro progettazione aveva sempre inteso realizzare dei panorami visibili da una serie ben studiata di punti d’osservazione. A partire da queste premesse, potevano quindi essere sviluppate le condizioni ideali, se opportunamente concepite e attuate, per raggiungere una conoscenza intuitiva e diretta degli elementi naturali. Conoscenza che poteva realizzarsi attraverso attività: sia teoriche come la progettazione; sia manuali come la costruzione e la manutenzione quotidiana del giardino; sia spirituali come la sua successiva contemplazione. 

Musõ Soseki, considerato uno dei più importanti maestri nel disegno di giardini Zen, nell’opera Dialoghi in sogno ha spiegato la funzione di queste opere: 

“[Il maestro] ha scritto «Di chi fa una distinzione tra il giardino e l’ascesi, non si può dire che abbia trovato la vera Via». 

Il grande monaco intendeva dire con questo che costruire il giardino è un modo di praticare lo Zen. Una tale asserzione implica l’esistenza di stretti legami tra l’arte dei giardini e la ricerca della verità”810. 

….  

Ps. Si consiglia di leggere questo bellissimo e approfondito volume di Bruno Filippo Lapadula

“GIARDINI E PAESAGGI NELLA STORIA UNA GUIDA RAGIONATA E BIBLIOGRAFICA” EDITO DALLA FONDAZIONE ALDO DELLA ROCCA ENTE MORALE PER GLI STUDI URBANISTICI