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Kirchhorst, 9 aprile 1939

Tra i campi, sulla cui distesa sono qua e là disseminati piccoli boschi scuri. Lungo i sentieri le betulle sono ancora spoglie. Sull’orlo dei fossati, l’amento in fiore, impollinato da api e mosche gialle. Grossi grappoli di uova di rana, annidate tra le alghe come un budino di sagù, e con il tuorlo nero già ben sviluppato. Ovunque poi, risonante in profondità, il loro vitreo richiamo. La primavera ha anche un suo lato anfibio, un fresco, tenero incanto, con giochi d’amore tra il ghiaccio stillante. Proprio delle rane, quando, immerse nell’acqua, sembrano reggersi in piedi sulle zampe posteriori allungate, mi ha sempre colpito la somiglianza con gli uomini, che certamente poi si perde in rami di vertebrati ben più evoluti. Fa l’effetto di un primo affondo della natura verso l’essere umano: uno slancio che si rinnoverà con urgenza sempre maggiore. Da ciò dipende senza dubbio anche il fatto che la rana, proprio come la scimmia, ci riesca comica.

Anche nell’accoppiamento il maschio afferra la femmina con le braccia alla maniera degli uomini. Da parte sua, l’uomo rivela corrispondenti tratti anfibi. Lo noto soprattutto quando, piegando la testa molto all’indietro, egli offre allo sguardo il rovescio del mento e della gola. Così rimangono sempre certi punti in cui la natura ha tagliato troppo frettolosamente su di noi vesti animali. Mi ricordo che da bambino la vista delle rane mi divertiva moltissimo. Una mattina, tornando dall’asilo, vidi una grossa ranocchia a macchie verdi e nere esposta nella vetrina di un negozio di acquari. Che si potessero acquistare creature tanto meravigliose mi stupiva, così entrai, un po’ intimidito, spinto tuttavia dalla smania di appropriarmi di un simile esemplare. Purtroppo mi raggiunse il nonno, mi trascinò fuori. Quella volta devo avere almeno parzialmente assaporato la sensazione che si prova nel possedere uno schiavo intendo quel piacere squisitamente antico, preromano, prealessandrino anzi «Quest’uomo mi appartiene, è una mia proprietà, un mio completo, sicuro possesso; mi piace tanto giocare con lui.» Sarei portato a credere che qui si celi una delle relazioni più profonde che esistano. D’altra parte però: «Io sono il tuo schiavo» – non ci si può forse immaginare questa frase pronunciata in un tono che finora nessuno dei nostri storici è riuscito a indovinare? Cose del genere appartengono all’infanzia della nostra specie, a quell’oscuro, sontuoso regno di fiaba che Erodoto poté ancora vedere con i propri occhi. Ciò conferisce ai suoi libri un rango incomparabile. Rileggendo questi appunti, noto che, nella terza frase, l’espressione «l’amento in fiore» mi suona male. E senza dubbio a ragione, perché vi si cela un pleonasmo, che andrà però lasciato lì dov’è, come un monito. Lodevole, per converso, la maniera in cui esso mi si è reso percepibile – attraverso un disagio estetico a priori, che ha anche una sua giustificazione logica.

 

ERNST JÜNGER – GIARDINI E STRADE – Diario 1939-1940. In marcia verso Parigi – Traduzione di Alessandra Iadicicco – UGO GUANDA EDITORE IN PARMA