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La Vita Organica, nata sotto le onde senza riva, fu svezzata in oceaniche grotte di perla; in principio minuscole forme, non viste da lenti, si muovono sul fango o perforano la massa acquea; di generazione in generazione fiorendo, assumono poi nuovi poteri e arti più grandi; da esse sorgono innumerevoli gruppi di vegetali, e regni dotati di respiro e di pinne, di piedi e di ali. 

Erasmus Darwin,  The Temple of Nature, 1803

Erasmus, il visionario nonno di Charles Darwin, fu deriso dai contemporanei per le sue teorie evoluzioniste. Lo stemma di famiglia che lui stesso disegnò e fece dipingere sulla propria carrozza dichiarava audacemente «Ex omnia conchis»: ogni cosa da una conchiglia. Forse non era che un semplice motto, eppure Erasmus aveva davvero precorso i tempi di qualche decennio e, in buona sostanza, aveva ragione: la vita ebbe davvero origine dal mare. Ma allora da dove provengono le piante terrestri? In effetti, esistono piante da seme che stanno nel mare, ma le «erbe marine» (come vengono chiamate) vivono in acque costiere poco profonde e hanno antenati terrestri. Dunque non sono che delle parvenu nel mondo acquatico, e tuttora sguazzano nei bassifondi fangosi dove possono evitare le loro avversarie più temibili: le alghe.

Nonostante le piante da seme si siano dapprima evolute sulla terraferma, ciò non significa che possiamo ignorare le origini marine delle stesse piante terrestri. Anzi, è esattamente il contrario: anche se l’evoluzione tirò la pianta fuori dal mare, non riuscì a tirare fuori il mare dalla pianta con la stessa facilità. O, come ben illustra Edred Henry Corner nel suo classico La vita delle piante, le piante terrestri sono state ricavate «in base a una ricetta di origine marina». Partendo da una ricetta di origine marina, dunque, l’evoluzione mise a punto qualcosa di assolutamente nuovo per soddisfare le esigenze della vita sulla terraferma: un embrione racchiuso in una scatola, cioè quel che chiamiamo «seme». In questa scatola, però, non c’è soltanto un embrione, ma anche una riserva di cibo predisposta dalla madre. Dunque, a voler mettere i puntini sulle i, un seme è un embrione dentro un cestino da picnic. I semi rappresentarono il tocco finale nell’adattamento delle piante alla vita terrestre. Ma allora che cosa c’era prima di loro, e come hanno fatto a evolversi da una ricetta di origine marina? Un confronto tra piante e animali risulta illuminante. Nel regno animale il successo nella colonizzazione della terraferma fu ottenuto svariate volte, e in modo indipendente, da vertebrati, molluschi e artropodi (insetti e crostacei), ma tra i vegetali si registrò un unico caso di colonizzazione coronato dal successo. Tutte le piante terrestri, compresi muschi, felci, equiseti, gimnosperme (conifere, cicadi e affini) e piante da fiore discendono da un unico progenitore, che per primo riuscì a passare dal mare alla terra. Di sicuro ci saranno stati anche tentativi falliti, ma non ci è dato sapere quanti.

Il fatto che il passaggio alla terraferma sia andato a buon fine soltanto una volta è senza dubbio una riprova dei tanti ostacoli alla sopravvivenza e alla riproduzione che la vita sulla terra doveva porre di fronte a un’alga marina. In effetti, le differenze tra l’ambiente marino e quello terrestre che possono avere un impatto sulle piante sono talmente tante che Corner non si prese neppure la briga di elencarle, spiegando che «un elenco del genere riempirebbe pagine e pagine ed è giusto risparmiare un simile fastidio a chi vuol conoscere rapidamente».

Un atteggiamento encomiabile, sintetizzato anche nei versi di un altro botanico: «Della botanica lo studio / non dovrebbe darti tedio, / ma spronare il tuo cervello / […] se non ti manca pure quello».

Magari tutti gli studiosi di botanica fossero così premurosi nei confronti dei loro lettori. Per quanto mi riguarda, l’elenco di ostacoli con cui vi tedierò sarà davvero breve, composto di due voci soltanto. In un ambiente terrestre, come fanno gli spermatozoi a nuotare e gli ovuli fecondati a non essiccarsi?

Le piante terrestri affrontano questi problemi in diversi modi. Per esempio, non si può dire che i muschi e le felci abbiano davvero risolto la questione, dato che per riprodursi sessualmente richiedono comunque condizioni umide. In questi gruppi gli spermatozoi hanno bisogno di una sottile pellicola di umidità che consenta loro di nuotare dagli organi maschili a quelli femminili. Ciò, logicamente, limita la diffusione di queste piante a habitat che siano umidi, almeno di tanto in tanto. Per esempio le felci, quelle esplosioni di foglie così familiari, si riproducono asessualmente: non ricorrono a ovuli o spermatozoi, bensì a spore fini come polvere. Una volta disseminate, le spore germinano, producendo un microscopico stadio sessuato che condurrà un’esistenza indipendente e a sua volta produrrà ovocellule e cellule spermatiche. Dopo la fecondazione, l’embrione che si è formato mette radice e diventa la pianta rigogliosa che chiamiamo felce. Anche alcune alghe presentano stadi asessuati e sessuati ben distinti; l’antenato di tutte le piante terrestri deve aver adottato una soluzione di questo tipo.

Nel XVI secolo era molto diffusa la convinzione erronea che le felci si riproducessero per seme. Ma dov’erano quei semi? Di sicuro, dato che tutte le piante nascevano da un seme, e quelli della felce non si riusciva proprio a trovarli, doveva trattarsi di semi invisibili! All’epoca gli erboristi ritenevano che le piante lasciassero trasparire le loro proprietà medicamentose nella forma delle foglie e dei fiori; perciò la vulneraria (Anthyllis vulneraria) — in inglese kidney vetch, «veccia del rene» — era indicata per i disturbi renali, mentre la fegatella (Anemone hepatica) era un toccasana per il fegato. Corollario un po’ stiracchiato della «dottrina delle segnature», come veniva chiamato questo sistema curativo, era che i semi invisibili della felce conferissero l’invisibilità a chi li portava con sé.

È evidente che tra qualunque erborista fautore di questa teoria e l’opportunità di fare un sacco di soldi si frapponeva un problema di ordine pratico: come mettere le mani sul seme della felce? Un sistema c’era. L’agognato bene poteva esser raccolto allo scoccare della mezzanotte della notte di mezza estate, ma solo a patto di «catturarlo» mentre cadeva dalla pianta sopra una pila di dodici piatti di peltro: sarebbe passato attraverso i primi undici, ma il dodicesimo l’avrebbe trattenuto. Non tutti, ovviamente, ci credevano. Nell’Enrico IV di Shakespeare, scritto nel 1597, un ladro di nome Gadshill tenta di arruolare un complice dicendogli: «Noi rubiamo come se fossimo dentro una botte di ferro, perfettamente sicuri; abbiamo la ricetta dei semi di felci… camminiamo invisibili». L’altro, però, gli risponde: «In fede mia, credo che dobbiate piuttosto ringraziare la notte che il seme delle felci, se camminate invisibili». Nessuno ormai crede più all’esistenza di tali semi, ma gli omeopati sono ancora convinti dell’efficacia di preparati che contengono estratti di erbe diluiti fino all’invisibilità, perciò faremmo forse meglio a non deridere la dabbenaggine dei nostri antenati.

Felci e muschi possono non avere semi, e i loro cicli riproduttivi ricordare quello di alcune alghe marine, tuttavia nel loro ciclo vitale c’è un tratto che li accomuna ad altre piante terrestri e li differenzia dalle alghe: tutte le piante terrestri producono un embrione pluricellulare che viene trattenuto all’interno del tessuto materno. Per questa ragione sono definite, come gruppo, «embriofite» (piante dotate di embrione). Il momento preciso dello sviluppo in cui l’embrione viene rilasciato varia notevolmente da una specie all’altra, ma tra gli organismi terrestri perfino la più negligente delle madri non si comporta mai come invece fanno molti animali e piante marini, che spruzzano ovuli e spermatozoi nell’ambiente e poi non se ne curano più. Gli anfibi (rane, rospi e salamandre) adottano una strategia simile, ma poi naturalmente tornano nell’acqua per riprodursi. Non è una coincidenza il fatto che le piante terrestri siano definite embriofite: la cura parentale dell’embrione è essenziale per riprodursi con successo sulla terraferma.

La ritenzione delle ovocellule fecondate nel tessuto materno, dove l’embrione in via di sviluppo può essere protetto dal rischio di essiccazione, rappresentò un passaggio evolutivo cruciale nella colonizzazione della terra dal mare, ma stadi sessuati dotati di vita autonoma come quelli delle felci richiedevano ancora un ambiente umido per la riproduzione. Dato che stiamo percorrendo a ritroso la storia evolutiva del seme, è difficile resistere alla tentazione di definire quanto sto per rivelare «il passo successivo» nell’evoluzione. Tuttavia, anche se quest’ultima — quando la contempliamo dall’osservatorio privilegiato del presente — sembra seguire una direzione, in verità i suoi passaggi non hanno uno scopo predeterminato: l’evoluzione vaga piuttosto da una soluzione fortuita all’altra, senza alcun disegno prestabilito. Alcune di queste soluzioni portarono agli attuali rappresentanti di piante come muschi e felci prive di semi; altre all’estinzione di piante quali i licopodi giganti e le felci da seme.

Chiarito questo, quanto accadde in seguito sul sentiero evolutivo che stiamo ripercorrendo affrancò le piante da una dipendenza dall’ambiente acquatico per la riproduzione. La pianta grande e robusta, invece di rilasciare le spore femminili, le trattenne nel proprio tessuto, dove si trasformarono in una macchina sessuale minuscola e ben protetta.

Ovviamente questo ebbe delle ripercussioni sulle spore maschili: poiché, di fatto, la femmina era stata rinchiusa in convento, dovevano arrivare alla cellula uovo per un’altra strada. Nuotare non era più il sistema giusto. Le spore maschili, però, erano già equipaggiate per la dispersione aerea, dunque tutto quello che si richiedeva loro era di ritardare il rilascio degli spermatozoi fino a quando fossero giunte in prossimità della cellula uovo. E fu così che la spora maschile si trasformò in un granulo di polline.

Dalle testimonianze fossili sappiamo che le prime piante da seme risalgono al periodo Devoniano, cioè a circa trecentosessanta milioni di anni fa. Appartenevano al gruppo delle gimnosperme, tra i cui membri tuttora esistenti si annoverano i ginkgo, le cicadi e le conifere. Etimologicamente, il termine «gimnosperme» deriva dal greco e significa «seme nudo», poiché i semi di queste piante non sono racchiusi in un ovario. Detto per inciso, la parola «ginnasta» ha la stessa radice: nella Grecia classica, infatti, i ginnasti eseguivano nudi le loro performance. L’albero di capelvenere, il Ginkgo biloba, è un fossile vivente di gimnosperme il cui sistema riproduttivo utilizza ancora più di un ingrediente di quella ricetta di origine marina da cui si è evoluto l’embrione.

Il Ginkgo biloba è l’ultimo superstite di un antico gruppo di gimnosperme, un tempo ben più numeroso. Alcuni antenati del ginkgo sono stati rinvenuti nei depositi fossili del Permiano, vecchi di duecentottanta milioni di anni. Il primo Ginkgo biloba fu scoperto in Cina da un botanico occidentale all’interno di possedimenti monastici, ma ormai lo si può incontrare nei giardini botanici e nei parchi di tutto il mondo. Questo fossile vivente è un grande sopravvissuto: un esemplare superò indenne l’onda d’urto della bomba atomica sganciata su Hiroshima nel 1945, nonostante si trovasse ad appena un chilometro dall’epicentro dell’esplosione. Questa specie è anche particolarmente resistente all’inquinamento. Molte strade di New York sono piantumate a ginkgo, ma solo con esemplari maschili: le femmine producono semi che, una volta giunti a maturazione, emanano un odore simile a quello del burro irrancidito. Senza dubbio questo fetore doveva piacere parecchio ai dinosauri che un tempo di quei semi si nutrivano, ma rappresenta un deterrente per gli esseri umani che, infatti, hanno finito per rimpiazzarli come agenti di dispersione. Se riuscite a trovare un ginkgo femmina in primavera, noterete che i suoi semi non fecondati dondolano suggestivamente, appaiati all’estremità di lunghi peduncoli.

Gli esemplari maschili di ginkgo producono granuli di polline, e ciascuno di questi contiene un maschio non sviluppato.

Quando un seme non fecondato (detto ovulo) su un esemplare femminile è pronto per l’impollinazione, un poro posto sulla sua sommità secerne una goccia mucillaginosa. In seguito quest’ultima verrà retratta affinché ogni granulo di polline trasportato dal vento che vi è rimasto intrappolato venga trascinato in una camera interna all’ovulo. I maschi ancora immaturi si riuniscono poi in questa camera, ciascuno nel suo minuscolo disco volante di polline. Un matrimonio è ormai predestinato tra uno dei giovani maschi in attesa e la femmina altrettanto acerba; prima però devono maturare: solo allora si assisterà a una competizione tra spermatozoi. Se Erasmus Darwin fosse stato al corrente di tutto questo quando scrisse il suo trattato in forma di poema Gli amori delle piante, avrebbe sicuramente raggiunto le vette più alte della poesia per rendere omaggio a questo fidanzamento tra giovani, con tanto di duello prenuziale.

L’arrivo del polline induce le cellule femminili contenute nell’ovulo a svilupparsi, ma ci vogliono fino a quattro mesi perché siano pronte per la fecondazione.11 L’albero, per non sprecare risorse inutili, interrompe il collegamento tra il peduncolo e il ramo per sbarazzarsi di tutti gli ovuli che non sono stati impollinati. Nel frattempo, dentro quelli impollinati anche i maschi — all’interno della loro camera — si sono sviluppati, ognuno traendo nutrimento dall’ovulo in modo parassitario, grazie a un «tubetto». (Come vedremo tra poco, l’evoluzione utilizzerà questo tubicino di alimentazione in modo diverso per altre piante da seme). Appena l’ovocellula è matura, la femmina apre una breccia nella camera pollinica e la inonda di liquido, creando nell’ovulo una gocciolina d’oceano. Ormai pronto all’azione, ciascun granulo di polline rilascia due massicce cellule spermatiche. Ognuna di esse può fare affidamento su centinaia di «pelucchi» mobili — detti ciglia — disposti a spirale, che lo sospingono in avanti come una torpedine. Il vincitore della corsa feconderà l’ovocellula generando il seme.

Gli spermatozoi motorizzati del Ginkgo biloba furono scoperti da un botanico giapponese nel 1896 e, non molto tempo dopo, un suo collega e compatriota scoprì che le cicadi presentavano un sistema sessuale molto simile e cellule spermatiche ancora più grandi, dotate di decine di migliaia di ciglia. Sempre in ambito sessuale, altre gimnosperme hanno apportato modifiche ancora più sostanziali alla ricetta marina originaria, prosciugandola quasi del tutto e ristrutturandola per funzionare in aria. I granuli di polline di pini, abeti e altre conifere volano grazie ad ali. Gli ovuli delle conifere, sebbene tecnicamente siano ancora nudi, se ne stanno al sicuro tra le squame dei coni — o pigne — che si flettono, schiudendosi, quando gli ovuli sono pronti per l’impollinazione, e si richiudono a fecondazione avvenuta. Non c’è alcun pseudo-oceano nell’ovulo, né spermatozoi motorizzati, però c’è ancora il tubetto utilizzato dal granulo di polline per parassitare il tessuto femminile. Nelle conifere, e nelle stesse piante da fiore, quel piccolo tubo oggi assolve una doppia finalità: nutrire il maschio, ma anche trasformarsi in un condotto che consenta allo spermatozoo di raggiungere l’ovulo. Nella storia dell’evoluzione questo non è che uno degli innumerevoli casi in cui un dispositivo evolutosi per far fronte a un determinato bisogno (nutrimento per via parassitaria) è stato utilizzato per uno scopo del tutto diverso (rilascio degli spermatozoi).

L’apice della strategia di protezione del seme si osserva nelle piante da fiore, i cui semi sono racchiusi in un ovario. Quando questi cominciano a svilupparsi, l’ovario che li circonda matura, trasformandosi in un frutto. Il nome scientifico della pianta da fiore è «angiosperma», che significa «seme in un vaso». I loro semi non soltanto sono più protetti rispetto a quelli delle gimnosperme, ma vengono anche nutriti in modo diverso. Il cibo nel cestino da picnic di una gimnosperma è fornito dal tessuto femminile; sistema simile a quello con cui una madre della specie umana nutre il feto che porta in grembo. Nel caso delle angiosperme, invece, quel cestino è costituito da una vivanda strana, diversa e perfino sinistra: un tessuto chiamato endosperma.

Nel 1898 il botanico russo Sergej Gavrilovič Navašin annunciò di aver scoperto che gli ovuli nei fiori oggetto dei suoi studi erano stati fecondati due volte. I granuli di polline delle angiosperme contengono due spermatozoi, proprio come il ginkgo, ma Navašin si accorse che, a differenza di quest’ultimo, entrambi gli spermatozoi delle angiosperme trovano un compagno. Uno di essi si fonde con la cellula uovo, originando l’embrione, mentre il secondo si fonde con un altro nucleo che galleggia all’interno dell’ovulo. Il prodotto di questa fusione si trasforma nell’endosperma, che finisce per diventare una riserva di cibo. In alcune specie, come i piselli, le sostanze nutritive contenute nell’endosperma vengono assorbite dall’embrione nel corso della crescita; mentre in altre specie, come le erbe, verranno utilizzate soltanto a germinazione avvenuta, e a quel punto andranno ad alimentare la piantina. In cereali come mais, frumento e riso la maggior parte dei chicchi è endosperma; di conseguenza, circa il sessanta per cento delle provviste di cibo del pianeta è costituito da tale tessuto.

Si dice che l’endosperma è un unicum, perché ha tre progenitori ma nessun discendente. Due dei progenitori sono rappresentati dai due set di cromosomi ereditati dalla femmina, mentre il terzo è il singolo set cromosomico proveniente dal granulo di polline. Si tratta di un meccanismo davvero bizzarro, in quanto gli embrioni stessi possiedono soltanto due set di cromosomi, trasmessi da ciascun genitore. Perché l’endosperma, nient’altro che un tessuto di riserva, dovrebbe averne tre? La risposta potrebbe celarsi nelle sue misteriose origini evolutive.

L’evoluzione dell’endosperma potrebbe essere iniziata in tre modi diversi. Potrebbe essere comparso ex novo, contestualmente alle angiosperme, sotto forma di tessuto del tutto nuovo. Ma questo è assai improbabile, dal momento che, come abbiamo visto, per elaborare soluzioni ulteriori l’evoluzione procede sfruttando ciò che è già a portata di mano: ogni novità ha sempre un antecedente di qualche tipo. Ecco allora altri due ipotetici scenari. Nel primo, l’endosperma avrebbe avuto origine come tessuto materno dotato di due set di cromosomi, dopodiché ci sarebbe stata una doppia fecondazione che avrebbe fornito il terzo set. Non è un’ipotesi da escludere, ma pone la questione del perché l’endosperma dovesse avere fin dall’inizio due set cromosomici, quando invece le cellule femminili che producono e sostentano l’ovulo ne hanno soltanto uno.

L’altro scenario è quello in cui l’endosperma avrebbe avuto origine come embrione, con un set di cromosomi proveniente dall’ovulo e l’altro dallo spermatozoo. Poi, a un certo punto, il contributo materno si sarebbe duplicato. Ed è questo lo scenario vagamente sinistro, perché suggerisce che l’endosperma sia il fratello parassitato dell’embrione in fase di sviluppo. È possibile che in quel cestino da picnic dall’aria così innocua si celi un segreto fratricida? I semi delle angiosperme vengono nutriti con una dieta a base dei loro stessi fratelli?

Un modo per tentare di rispondere a questa domanda è studiare lo sviluppo del seme in fossili viventi come il ginkgo: potremmo trovare qualche indizio e farci un’idea di quale potrebbe essere lo scenario evolutivo più probabile per le angiosperme. Il ginkgo stesso, che non è dotato di endosperma, è un parente troppo lontano per esserci d’aiuto, ma nel 1995 ci fu un brivido d’eccitazione quando si scoprì la doppia fecondazione nell’Ephedra, una gimnosperma che cresce nel deserto e che si riteneva avesse un antenato in comune con le angiosperme. Nell’Ephedra vengono fecondati due ovuli e quindi prodotti due embrioni identici, ciascuno dei quali presenta un set di cromosomi ereditato dalla mamma e l’altro dal papà. Soltanto uno dei due embrioni si sviluppa: l’altro viene immancabilmente abortito. «Colpevole!» tuonò il verdetto di fronte a questa scoperta. Sembrava che la doppia fecondazione nell’antenato comune all’Ephedra e alle angiosperme avesse prodotto due embrioni, uno dei quali in seguito si sarebbe trasformato nell’endosperma delle angiosperme.

«Non saltiamo a conclusioni affrettate», replicò l’avvocato della difesa. Si tratta solo di una prova indiziaria. E se in realtà non fosse vero che l’Ephedra ha un antenato in comune con le angiosperme? Come nei più riusciti legal thriller, la soluzione sarebbe arrivata solo grazie alla prova del DNA. Nel 1999 gli esami sul materiale genetico dimostrarono che, tutto sommato, l’Ephedra non era poi così strettamente imparentata con le angiosperme. Caso archiviato. L’Ephedra era una falsa pista.

Al momento non disponiamo di un testimone oculare che possa svelarci qualcosa sugli eventi epocali che diedero origine alle piante da fiore. È possibile che là fuori, da qualche parte, ci sia un fossile vivente di gimnosperme strettamente imparentato con le angiosperme, magari nascosto come il pino Wollemi, che fu scoperto solo nel 1994 in un vertiginoso canyon australiano; ma per adesso questo testimone oculare non è saltato fuori, e forse non lo troveremo mai.

Anche se non ne abbiamo la certezza, è possibile che l’endosperma sia un embrione sacrificale, sterilizzato, convertito in riserva di cibo per i fratelli. Uno dei motivi a sostegno di questa ipotesi è che la suddivisione del lavoro tra assistenti (come l’endosperma) e portatori di prole (come l’embrione è destinato a diventare) è una situazione comune in natura. Ne esistono numerosi casi tra gli insetti sociali. Tra le api da miele, per esempio, le operaie raccolgono tutto il cibo per l’alveare e si occupano della prole della regina, ma non si riproducono. L’ape regina depone le uova, ma non si prende direttamente cura della figliolanza. A prima vista, una soluzione di questo tipo sembra contraddire i principi evolutivi darwiniani: come può una casta sterile evolversi se la selezione naturale favorisce gli individui che si lasciano dietro il maggior numero possibile di discendenti? E davvero le sterili api operaie non hanno discendenti, per definizione?

Lo stesso Charles Darwin si rese conto del problema, tanto da considerarlo uno dei più spinosi della propria intera teoria evolutiva fondata sulla selezione naturale. Però seppe anche vederne la soluzione. «Questa difficoltà, sebbene appaia insuperabile, si riduce o, come credo, scompare, quando si ricordi che la selezione può applicarsi alla famiglia, così come all’individuo, e può così raggiungere lo scopo desiderato». In altre parole, un sacrificio potrebbe talvolta essere ripagato con la trasmissione di geni attraverso i parenti.

Il grado di parentela tra l’assistente e il portatore di prole influisce sulla probabilità che l’evoluzione possa favorire il sacrificio da parte di un assistente. Tra esseri umani, i fratelli e le sorelle condividono, in media, metà del patrimonio genetico, mentre i cugini primi con due nonni in comune ne condividono un ottavo. Ecco perché J.B.S. Haldane, tra i fondatori della teoria evolutiva moderna, sosteneva che avrebbe dato la sua vita per due fratelli oppure per otto cugini. Le api da miele appartengono al gruppo degli imenotteri, caratterizzato da un insolito sistema sessuale che devia la parentela tra i singoli individui di un alveare. Le api maschio, i cosiddetti «fuchi», nascono da uova non fecondate, dunque non hanno un padre e sono dotati di un unico set cromosomico ereditato dalla madre. Tutti gli spermatozoi di un fuco, perciò, sono identici; quando si accoppia con un’ape regina, l’intera prole femminile riceverà da lui un identico set cromosomico. Il risultato è che in un alveare le sorelle condividono non metà dei geni (come accade nelle famiglie umane), ma tre quarti di essi. L’ape regina si accoppia un’unica volta nella vita, dunque le api operaie dell’alveare sono le «supersorelle» della nidiata di larve di cui si prendono cura: condividono con ciascuna di esse il 75 per cento del patrimonio genetico. Questa stretta parentela implica che, prendendosi cura delle sorelle, potranno favorire la trasmissione dei propri geni alle generazioni future. Per dirla con Haldane, un’ape operaia darebbe la vita per una sorella e un terzo.

Le peculiarità genetiche delle api da miele — di cui però Charles Darwin era completamente all’oscuro — confermano in pieno la sua intuizione, ovvero che l’evoluzione verso la sterilità delle api operaie doveva probabilmente essere giustificata dai benefici che garantiva ad altri membri della famiglia. Approfondire gli affascinanti dettagli dell’evoluzione degli insetti sociali trascende lo scopo di un libro dedicato ai semi; basti dire che la spiegazione di come si sono evoluti tali insetti — una spiegazione che prendeva le mosse da una delle maggiori difficoltà di Darwin — ha finito per trasformarsi in una delle sue più alte conquiste.

La logica genetica che giustificò l’evoluzione delle api operaie sterili può essere applicata con pari efficacia all’evoluzione dell’endosperma. Il palcoscenico evolutivo è stato allestito dalle api operaie; dietro le quinte è già pronta un’altra compagnia di attori. Siamo agli albori dell’era delle angiosperme, e il sipario si alza su una nuova scena. Dove prima c’era un alveare, ora appare un ovulo contenente due cellule uovo identiche. Un insetto arriva sul fiore. In questa recita botanica la sua è soltanto una particina, ma porta con sé il protagonista maschile: un granulo di polline. Quest’ultimo germina, il suo tubetto pollinico penetra nell’ovulo e due identiche cellule spermatiche vengono rilasciate nell’ovario. La cellula spermatica incontra l’ovocellula; l’ovocellula incontra la cellula spermatica… ed ecco che abbiamo due identici embrioni gemelli. Fine della scena 1.

Scena 2: due embrioni in un ovulo. L’ombra di J. B. S. Haldane si fa largo a grandi passi sul palco e pronuncia la battuta fatidica: «Se fossi un embrione, darei la vita per un gemello identico». Un silenzio di tomba scende sull’acquitrino. Nessuno sa quale dei due embrioni avrà diritto a una discendenza e chi sarà un mero assistente, ma una cosa è certa: l’embrione che sacrificherà se stesso per sfamare l’altro si assicurerà un futuro tramite i geni del ben pasciuto gemello. Sipario.

Dunque, possiamo supporre che la doppia fecondazione abbia prodotto in un seme di angiosperma due embrioni e che un fratello altruista si sia trasformato in un primo endosperma, sacrificando se stesso per saziare l’appetito del gemello. Tuttavia, sappiamo che la storia non si è conclusa lì: a un certo punto nell’evoluzione delle angiosperme, l’altruista e generoso endosperma ha acquisito un secondo set di cromosomi materni. Questo ha modificato negli embrioni il classico rapporto di 1m:1p di geni materni (m) e paterni (p), che nell’endosperma è diventato 2m:1p. Come è potuto accadere? Una volta di più, la risposta va cercata nella genetica del vantaggio personale.

Immaginate uno scenario di poco successivo all’evoluzione dell’endosperma. Una coppia di semi si sta sviluppando all’interno di un frutto. Il seme 1 si sta ingrossando, sfruttando il più possibile le risorse materne. Il seme 2 sta facendo altrettanto. Dovrebbero condividere o competere tra loro? E chi stabilisce in quale misura ciascun seme avrà diritto di attingere alle limitate risorse materne? Proviamo a rispondere adottando due diversi punti di vista: quello materno e quello paterno. Dalla prospettiva della madre, ciascun seme è portatore di metà dei suoi geni, dunque non c’è motivo per accordare la preferenza all’uno o all’altro. Finché ognuno riceve abbastanza nutrimento per mantenersi vitale, in linea di massima conviene produrre una certa quantità di semi piuttosto che concentrare tutte le risorse disponibili in un unico, gigantesco esemplare. L’evoluzione ha scoperto che mettere tutte le uova in un solo paniere non è una strategia astuta ben prima che gli esseri umani coniassero il famoso proverbio. Dunque, dal punto di vista materno, le risorse andrebbero spartite equamente.

Agli occhi del padre, invece, le cose appaiono in ben altra maniera. Tutti i semi presenti su una pianta hanno la stessa madre, ma non il medesimo padre; ne consegue che, dal punto di vista paterno, consentire una condivisione delle risorse non incrementerà il suo personale contributo alle generazioni future. Anzi, è valido il contrario: le risorse messe a disposizione di altri semi non faranno che fomentare la competizione appena i semi germineranno; le piantine inizieranno ad azzuffarsi tra loro per garantirsi luce e nutrimento. Il diverso grado di parentela tra i genitori e i singoli semi scatena dunque un conflitto d’interessi tra il padre e la madre. È nell’interesse del primo accaparrarsi il maggior numero di risorse possibile; mentre è in quello della madre metterle a disposizione di tutti i semi. Come viene risolto questo conflitto?

L’endosperma gioca un ruolo decisivo nel mediare il dissidio parentale per l’allocazione delle risorse in quanto costituisce la linea di rifornimento e la scorta di cibo grazie a cui la madre nutre l’embrione. In un endosperma caratterizzato dal rapporto 1m:1p, i due sessi sono equamente rappresentati nella competizione: un set cromosomico a testa. Nell’endosperma 2m:1p, la madre batte il padre e gli strappa il controllo genetico raddoppiando il proprio arsenale di geni. I vantaggi che questo comporta in termini di produzione di semi da parte della madre, e del suo contributo alle generazioni future, spiegano presumibilmente perché la selezione naturale abbia favorito l’endosperma 2m:1p, rendendolo pressoché universale tra le piante da fiore.

Se proprio non riuscite ad abituarvi all’idea che perfino nei chicchi di un innocuo sacchetto di popcorn si celi un conflitto parentale, avete tutto il diritto di pretendere qualche prova. La più convincente è che, quando la proporzione relativa di geni materni:paterni subisce una manipolazione, si modifica l’accesso alle risorse da parte dei semi. Sul granoturco sono stati compiuti esperimenti genetici che hanno manipolato il rapporto classico 2m:1p dell’endosperma per ottenere quote differenti. Se l’evoluzione ha favorito il passaggio dall’originario rapporto 1m:1p all’attuale 2m:1p — perché una dose doppia di geni materni influisce sulla dimensione dei semi -, allora sbilanciare tale rapporto ancor più in favore della madre avrebbe dovuto produrre chicchi di granoturco più piccoli del normale. Ed effettivamente gli esperimenti portarono proprio a questo risultato. L’endosperma dotato di un set cromosomico materno in più — ovvero 3m:1p — produceva semi più piccoli. Un rapporto 4m:2p, invece, riportava di fatto la proporzione a 2m:1p, originando chicchi di dimensioni normali. Questo dimostra che è l’equilibrio tra set cromosomici materni e paterni, non il loro numero effettivo, a fare la differenza.

 

Letture:

Ho due libri da consigliarvi, peccato che entrambi si rivolgano agli addetti ai lavori più che al lettore comune: Katy J. Willis e Jenny C. McElwain, The Evolution of Plants, Oxford University Press, Oxford 2002; Karl J. Niklas, The Evolutionary Biology of Plants, University of Chicago Press, Chicago 1997.

Tratto da: Jonathan Silvertown, La vita segreta dei semi, Bollati Boringheri