In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dèi (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele, perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e piú tardi l’iniziativa culturale, ma finí col perdere anche ogni memoria di se stessa.
Noi spesso, travolti da un facile classicismo di scuola, pensiamo a un’Atene immobile per secoli nel biancore dei suoi marmi e rifiorita a nuovo splendore, quasi si fosse destata dal sonno, con l’indipendenza politica della Grecia nel 1827. Ma non è cosí: quando verso la fine del XII secolo il dottissimo Michele Coniate, che veniva da Costantinopoli, divenne vescovo di Atene, restò sbalordito davanti alla terribile ignoranza degli Ateniesi, che non sapevano piú nulla delle glorie della propria città, non sapevano dire ai forestieri che cosa mai fossero i templi ancora intatti, né sapevano indicare dove avessero insegnato Socrate, Platone, Aristotele.
In quella smemorata Atene di un lunghissimo Medio Evo, il Partenone era diventato una chiesa, con le pareti coperte da icone e altri dipinti sacri, e vi aleggiavano canti liturgici e profumo d’incenso. Fu piú tardi cattedrale latina (dopo la crociata del 1204), ripetutamente spogliata da veneziani e fiorentini, senza che gli abitanti alzassero mai un dito a difenderla, senza che si levasse una voce a ricordarne la storia e la gloria. Quando Atene fu occupata dai Turchi nel 1456 (e il Partenone-chiesa fu trasformato in moschea), della città si era perso perfino il nome. Quel che restava era un villaggio miserevole con qualche capanna qua e là sparsa tra le rovine, e gli abitanti, ridotti a poche migliaia, lo chiamavano Satiné, Satines, con una storpiatura che (per esempio) il nome di Roma non subí mai. Ma l’oblio di se stessi degli Ateniesi era cominciato molto prima: già verso il 430 dopo Cristo il filosofo neoplatonico Proclo, che abitava vicino all’Acropoli, racconta di aver visto in sogno Atena, la dea del Partenone, che, scacciata dal tempio, gli chiedeva ospitalità nella sua casa. Questo sogno nostalgico esprime molto bene non solo la fine di una religione e dei suoi monumenti, ma il tramonto di una cultura e della sua autoconsapevolezza.
Come accade a chi perde la memoria, anche le città, quando sono colte da amnesia collettiva, tendono a dimenticare la propria dignità. Se qualcosa resta del loro spirito antico, deve cercar rifugio altrove (per esempio, nel caso di Atene, a Costantinopoli, e di qui a Mosca, o nell’umanesimo italiano). Noi, oggi, abbiamo a nostra volta dimenticato che perfino Atene giunse a dimenticare se stessa; ma è bene richiamare alla nostra mente il buio di quella smemoratezza, se non vogliamo che lo stesso morbo colpisca anche noi. Le tenebre dell’oblio non piombano all’improvviso sulle comunità, ma vi calano sopra, lente e malferme, come un esitante sipario. Perché il sipario scenda fino in fondo, perché avvolga ogni cosa in una notte indistinta, non c’è bisogno di complicità: basta l’indifferenza. Per questo è importante, come lo è per la salute mentale e fisica di ognuno di noi, cogliere il piú presto possibile ogni sintomo di smemoratezza, correre rapidamente ai ripari.
È diventato di moda, in questi anni rovinosi e guasti, ripetere come una giaculatoria che «la bellezza salverà il mondo». Sono parole che Dostoevskij mette in bocca al principe Myškin, il protagonista dell’Idiota, e che in Italia si citano ormai spessissimo come un mantra consolatorio (e autoassolutorio), ma sempre fuori contesto. «Ma quale bellezza salverà il mondo?» chiede a Myškin il giovane Ippolit, e soggiunge che «idee cosí frivole sono dovute al fatto che il principe è innamorato». Perché «la bellezza è un enigma», anche se quella di Aglaja Ivanovna «può mettere il mondo sottosopra». Per Myškin la bellezza è uno stato di grazia, «uno straordinario rafforzamento dell’autocoscienza», fatto di «bellezza e preghiera», uno stato di alterazione che egli sperimenta subito prima di ogni attacco epilettico («Sí, per questo momento si può dare tutta la vita»). La bellezza di cui parla Myškin è dunque sopra di noi, qualcosa a cui ci si abbandona, innamoramento o preghiera, «acquietamento e trepida fusione con la suprema sintesi della vita».
Altra cosa è la bellezza delle città e dei paesaggi: tangibile orizzonte e non vagheggiamento visionario; patrimonio non dell’individuo ma delle comunità; fatto non di subitanee illuminazioni, ma di una trama continua di progetti, di sguardi, di gesti, di saperi, di memorie. Non sta al di sopra di noi perché – anzi – noi stessi ne siamo parte essenziale, perché una stessa aria e uno stesso sangue accomunano i monumenti dell’arte, della natura e della storia a chi li ha creati e a chi li custodisce e li abita: viva esperienza di uomini e donne del nostro tempo, che sono – che siamo – tramite e cerniera fra le generazioni passate e quelle che verranno. La suprema bellezza di Atene non la salvò dall’oblio di se stessa, né dalle spoliazioni e distruzioni che ne seguirono. Non impedí ai fiorentini Acciaiuoli, duchi di Atene, di trasformare i Propilei in una residenza fortificata (intorno al 1403), non impedí ai Turchi di usare il Partenone come un deposito di polveri da sparo, non impedí al veneziano Francesco Morosini di cannoneggiarlo facendone saltare per aria una gran parte (26 settembre 1687: piú di 700 tracce di palle di cannone sono ancora visibili sui marmi di Pericle e di Fidia). Se appena ci guardiamo intorno, nei nostri paesaggi, nelle nostre città, abbandonarsi alla bellezza non basta (non è bastato mai), non basta chiedere a essa una miracolosa salvazione in automatico, assolvendo noi stessi da ogni responsabilità. Al contrario, la bellezza va coltivata dai vivi ogni giorno se vogliamo che qualcosa ne resti, per noi stessi e dopo la nostra morte. La bellezza non salverà nulla e nessuno, se noi non sapremo salvare la bellezza. E con la bellezza la cultura, la storia, la memoria, l’economia. Insomma, la vita.
Tratto da: Salvatore Settis, Se Venezia muore, Giulio Einaudi Editore