Nella magica quiete del suo studio laboratorio sui dolci colli di Fiesole, studia e lavora da più di trenta anni uno dei più grandi architetti di giardini e di paesaggi del mondo, Pietro Porcinai. L’incantevole villa Rondinelli-Vitelli, che nel Quattrocento era la casa degli ospiti dei Medici, sembra il luogo ideale per chi da una vita si occupa di verde privato e di verde pubblico.
“È stato un amore a prima vista”, racconta Porcinai con il suo bell’accento fiorentino. “Mi innamorai della villa appena la vidi, e decisi di prenderla in affitto, anche se era decisamente al di sopra delle mie possibilità economiche. Allora apparteneva alla principessa Isabella Boncompagni Ludovisi, che aveva già 92 anni e che fortunatamente mi preferì ad altri. Per due anni andai li soltanto per pensare. Poi uno dei nipoti che l’aveva ereditata decise di venderla, e io, che non ero ricco ma avevo molti amici su cui contare, riuscii a ottenere un grosso prestito da una banca e la comprai. Dovette però passare ancora del tempo prima di poterla considerare mia, perché l’eredità si rivelò complicatissima, in quanto gli eredi erano numerosi e in discordia fra loro”.
È inevitabile domandargli da che cosa derivi la sua grande passione per i giardini, che lo ha portato a progettarne in tutto il mondo.
“La ragione è che sono nato in uno dei più bei giardini del mondo, quello di villa Gamberaia a Settignano. Quindi se è vero che l’ambiente influisce, feci là i primi passi e la prima caduta da un muro”, risponde il professor Porcinai. “Inoltre ho sempre avuto studi in bellissime posizioni, perché forse il posto dove si lavora e si crea è più importante di quello in cui si abita”.
Filosofo e poeta, Pietro Porcinai considera il giardino un punto ideale d’incontro fra uomo e natura. In un suo libro, Giardini d’Occidente e d’Oriente, scritto con Attilio Mordici nel ’66, Porcinai traccia la storia del giardino attraverso i secoli e in tutte le culture del mondo. E indica con il termine greco paradeisas il giardino come simbolo di riposo e di meditazione.
“Durante il Rinascimento”, spiega, “a Firenze i Rucellai, mecenati, crearono i famosi Orti Oricellari, giardini con portici e colonne, destinati alla meditazione, dove i filosofi potevano passeggiare, discutere e riflettere. Ecco, io ritengo che la meditazione sia necessaria come la preghiera e indispensabile come l’ossigeno”.
Questo equilibrio e questa atmosfera di serenità, Porcinai cerca sempre di ricrearli nei suoi progetti: i suoi giardini sono il risultato di una precisa analisi dei fattori climatici e della conoscenza delle esigenze ambientali delle piante.
“Il giardino è un pezzo di natura creato dall’uomo secondo i suoi sentimenti e la sua cultura. Nulla va distrutto, se l’ambiente viene rispettato. Mao Tse-tung era un poeta, e infatti non voleva passare direttamente dall’agricoltura all’industria, perché aveva capito che il primo elemento da rispettare è la natura umana, e di conseguenza viene rispettato anche l’ambiente”.
Tra le centinaia di progetti realizzati da Porcinai, più della metà sono di giardini.
“Perché il giardino è nato prima della casa, addirittura con il paradiso terrestre”.
Moltissimi e importanti sono anche i suoi progetti di verde pubblico e di urbanistica: sua è la piazza Beaubourg davanti al Centre Pompidou a Parigi con la regia di Piano e Rogers; la sede della Mondadori a Segrate, presso Milano (con la regia di Oscar Niemeyer); il Parco Sempione a Milano con Oscar Viganò e il Parco Favorita a Palermo con Francesco Fariello di Roma e con un gruppo di palermitani; parchi in tre città dell’Arabia Saudita; la veranda dello storico ristorante Savini a Milano. Numerose anche le terrazze, le serre, e le piscine, costruite – dice
“con materiali che non devono mai contrastare con l’ambiente naturale. Una piscina in Toscana, ad esempio, non può che avere il fondo di ciottoli”.
Professore, qual è il giardino ideale?
“Quello che, purtroppo, non si riesce mai a realizzare”.
Ma quali sono gli elementi indispensabili per ottenere un bel giardino?
“Il vero giardino intanto non distrugge, ma valorizza il terreno. La fitosociotogia studia come le piante si associano fra loro, perché anch’esse hanno simpatie e antipatie. E soltanto se sono in sintonia il risultato è di vera bellezza. Non basta piantare qualche albero dove capita, per avere un bel giardino”.
Lei sostiene l’idea del giardino inteso come verde organizzato?
“La natura con tutti i suoi innumerevoli organismi tende a un’unità e a un’armonia che la scienza non è ancora arrivata a poter decifrare. Un’intuizione che ho avuto da tempo è questa: il caos è il più grande ordine. In natura tutto avviene cosi. Nell’universo c’è un grandissimo equilibrio, ma basta il vento prodotto dalle ali di una zanzara per modificare l’ambiente: è tutto perfettamente organizzato”.
Se basta un soffio per distruggere l’equilibrio naturale, anche l’equilibrio dell’uomo è gravemente minacciato?
“Ma certo. Basta pensare a come l’uomo interferisce sulla natura con mezzi terribili, e si spiega come anche l’organizzazione della nostra società è tutta contro natura”.
Lei si è occupato anche di urbanistica. Perché il verde pubblico é cosi trascurato e perché le nostre città sono cosi povere di spazi verdi?
“Perché la nostra classe dirigente e politica non é preparata ad affrontare questo problema, come invece lo erano i grandi del passato. Nietzsche scriveva che la città del Super uomo era Genova con i suoi superbi palazzi e i suoi giardini”.
Eppure in Italia c’è una tradizione peesaggistica: basta pensare ai giardini rinascimentali. Come mai non esiste da noi una civiltà del giardino, mentre esiste, ad esempio, in Inghilterra?
“Un tempo in Italia gli artisti erano valorizzati dalla cultura e dalle esigenze dei committenti. Oggi questo fenomeno rivive forse in alcuni campi, come la moda e il design, perché le industrie hanno capito che attraverso l’opera di certi artisti vendono di più. Ad ogni modo, le tre figure fondamentali sono, come nei tempi passati, il committente, l’artista, l’esecutore: se uno dei tre non funziona, non c’è risultato”.
Pare che l’interesse per il giardino sia coinciso con il boom del benessere, secondo lei, chi oggi in Italia vuole avere un giardino lo fa perché ama la natura o piuttosto perché desidera uno status-symbol?
“Molti cercano il giardino soltanto come status-symbol, ma io non amo lavorare per questo tipo di persone. Mi e capitato sperso, anche recentemente, di rifiutare lavori per evitare compromessi”.
Com’è in genere, il committente italiano? E preparato?
“Ci sono committenti molto sensibili ed intelligenti che hanno un’intuizione, un feeling per le cose belle. Di persone cosi dotate, fortunatamente, l’Italia è ricca. Inoltre possiamo vantare artigiani unici al mondo, perché hanno una tradizione di secoli alle spalle”.
Lei ha lavorato molto all’estero?
“Si, ho avuto occasione di lavorare dal Circolo Polare Artico all’Equatore: posso quindi affermare che sui miei giardini non tramonta mai il sole. Molti incarichi li ho accettati non per danaro ma perché mi interessava conoscere ambienti e visitare paesi”.
È riuscito a creare il verde anche in pieno deserto. Come ha fatto?
“E la cosa più semplice che si possa fare: basta avere l’acqua. E di acqua ce n’è dappertutto, anche dove. di solito, piove poco”.
Il contatto con la natura le ha dato la capacita di vivere più serenamente? Nel suo lavoro ha trovato l’equlibrio?
“Ognuno di noi è un artista, chi più chi meno, e la felicita delle persone consiste proprio nell’esercitare le proprie capacità creative. Quando una persona crea é felice; e di conseguenza anche il lavoro che fa lo rende serena. Sarebbe giusto che tutti conoscessero il significato del Cantico delle Creature di San Francesco, e anche Virgilio, Omero, Dante e Shakespeare, per le loro splendide descrizioni della natura”.
Dal lavoro ha avuto delusioni?
“Tante. Spesso, quando c’è una persona di fantasia, un artista che ha qualcosa da esprimere, gli ‘scarsi’ che si annidano negli enti pubblici lo demoliscono perché non vogliono che si affermi. Perfino Le Corbusier e Frank Lloyd Wright si videro bocciare alcuni dei loro progetti. Sono convinto che anche la burocrazia è contro natura. E in Italia, purtroppo, ogni azione prima di essere compiuta richiede almeno una domanda in carta bollata!”.
Qual è, per fare un esempio, una delle sue battaglie perdute?
“Uno dei miei sogni era quello di poter trasformare la villa Rondinelli in un centro per artisti, un punto d’incontro, un modo per scambiarsi idee, esperienze, opinioni, un po’ come avveniva nei giardini rinascimentali. Non sono riuscito ad attuare le mie idee, perché non ho trovato gli sponsor e ho invece trovato mille ostacoli burocratici”.
E di soddisfazioni ne ha avute?
“Qualche battaglia l’ho vinta anche in Italia, ma è all’estero che ho avuto più soddisfazioni. Mi sono occupato, ad esempio, del trasferimento dei templi di Abu-Simbel in Egitto, quando ero membro della Commissione all’Unesco”.
Qual è stato, fra i tanti, il riconoscimento che le ha fatto più piacere?
Quello che ho ricevuto nel ’79 dall’Accademia di belle arti bavarese; un’onorificenm che mi è stata conferita sopratutto per le battaglie perdute. E mi piacque moltissimo come venni definito da Friedrich Ludwig Von Skell nella laudatio: ‘Un samurai che combatte pur sapendo di non vincere'”.
Un’importante capacità di Pietro Porcinai era quella di individuare i reali problemi e comprendere le procedure idonee, precorrendo sempre i tempi grazie ad una pre-veggenza fondata su basi tecniche sperimentate. Oltre al suo precoce ed innato talento naturale e alla sua intelligenza professionale, Porcinai aveva inoltre maturato una specifica formazione all’estero, in notevole anticipo rispetto ad altri, senza dubbio rimanendo influenzato dalla cultura paesaggistica di quei paesi, in particolare Germania e Belgio, dove aveva fatto pratica di tecniche colturali presso alcuni vivai specializzati. In Italia il percorso della sua formazione si intrecciò con un periodo cruciale dell’arte dei giardini: infatti, proprio nel 1924 Luigi Dami pubblicò II giardino italiano, dimostrando il primato italiano nell’arte dei giardini.
La natura autoctona e caratteristica del giardino italiano, nel riappropriarsi del suo primato in un campo diventato oggetto di studi di stranieri, soprattutto anglosassoni, culminò nella famosa Mostra del Giardino Italiano del 19311 a Firenze, dove si tese alla valorizzazione di un grande passato, senza tuttavia tentare di aprire la strada alla ricerca di nuove forme moderne nell’arte dei giardini. Presidente della Commissione esecutiva’ della mostra fu Ugo Ojetti, sostenitore di un’architettura monumentale e in stile. Nell’ambito della manifestazione furono riproposti dieci modelli ideali di giardini, in una sorta di percorso storico dell’arte dei giardini italiani, concepiti come piccole creazioni scenografiche in cui era presente anche il giardino paesaggistico all’inglese, anche se giudicato estraneo alla tradizione classica nazionale.