In tempi lontanissimi, ben prima che le parole venissero scritte su pergamena, l’uomo guardava le api con timore e meraviglia. In ogni angolo del mondo, dal bacino del Mediterraneo fino alle foreste amazzoniche, le api erano viste come creature sacre, messaggere degli dèi, spiriti dell’aria e della terra. Le loro danze, i loro canti, la geometria perfetta dei favi erano interpretati come segni del divino. Nella mitologia etrusca, che ci è giunta solo in frammenti e simboli, le api appaiono associate ai riti funerari e alla sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Alcuni studiosi hanno letto nelle raffigurazioni delle tombe etrusche la presenza di esseri alati simili ad api, accompagnatori del defunto verso l’oltretomba, una sorta di guida sottile tra i mondi. Anche nel mondo greco le api erano collegate al mistero della morte e della rinascita. La sacerdotessa di Demetra era detta “Melissa”, cioè ape, e secondo il mito fu un’ape a nutrire il neonato Zeus con miele, nascosto in una grotta per sfuggire a Crono. Le api erano le nutrici degli dèi.
Nel culto orfico, che prometteva un aldilà di luce e consapevolezza, l’anima era spesso paragonata a un’ape: laboriosa, silenziosa, capace di raccogliere nettare dai fiori dell’esperienza. Morire, per questi iniziati, era come tornare all’alveare, al centro del cosmo. In questo contesto di credenze antiche, l’usanza di “dirlo alle api” dopo la morte di qualcuno appare come una naturale prosecuzione del pensiero simbolico: se le api erano anime, o almeno loro interlocutrici, bisognava renderle partecipi degli eventi umani. Dall’altra parte del mondo, presso i popoli aborigeni australiani, le api (in particolare quelle senza pungiglione) sono parte delle storie del Dreamtime, il tempo del sogno originario. In queste narrazioni sacre, le api non sono solo produttrici di miele, ma anche custodi di conoscenze ancestrali, segni viventi del legame tra la terra e i suoi abitanti. L’atto di raccogliere miele era spesso accompagnato da canti e rituali, per non disturbare l’equilibrio spirituale.
Nell’Amazzonia, invece, molte tribù considerano i prodotti dell’alveare come strumenti di guarigione spirituale e fisica. Non solo il miele, ma la propoli, la cera e persino il veleno d’ape sono utilizzati in cerimonie sciamaniche. In alcuni villaggi, prima di curare un malato grave, lo sciamano “parla alle api”, si avvicina all’alveare e chiede consiglio o protezione. Anche qui, la relazione non è di dominio ma di alleanza, fondata sul rispetto reciproco. Questo uso farmacologico e rituale delle api è testimoniato anche nelle prime medicine cinesi e indiane. Nell’Ayurveda, il miele è chiamato madhu ed è considerato uno dei cinque elisir della longevità. In molte culture antiche, era usanza ungere i defunti con miele prima della sepoltura, per proteggerli e addolcire il passaggio all’altra vita.
Quando poi si giunge alle campagne dell’Europa medievale, tutto questo bagaglio simbolico si condensa nella semplice frase: “Bisogna dirlo alle api”. Dietro a quel gesto si nasconde una lunghissima storia, fatta di saperi dimenticati e intuizioni profonde. Le api erano parte della famiglia, certo, ma anche qualcosa di più: testimoni di un ordine cosmico, creature poste sul confine tra il mondo degli uomini e quello invisibile. Riferire loro la morte di qualcuno non era superstizione, ma una forma arcaica di comunicazione sacra. Era il riconoscimento che tutto è collegato, che ogni vita e ogni morte riguardano anche il respiro della natura. Ancora oggi, in alcune zone d’Europa, ci sono contadini e apicoltori che, davanti a un lutto, si fermano un attimo e, quasi sottovoce, vanno a bussare all’arnia. Le parole sono poche, a volte solo un nome, un silenzio. Ma le api ascoltano. E il legame continua.
Alessio Guarino