Fabbricato viaggiatori Stazione di Firenze S.M.N.
Il Fabbricato viaggiatori della stazione di Firenze è il felice risultato di un concorso nazionale del 1932, che richiedeva la progettazione dell’edificio comprendente tutti i servizi per i viaggiatori in arrivo e partenza. Il progetto del “Gruppo toscano” venne dichiarato ufficialmente vincitore nel marzo 1933. L’edificio della stazione si confronta in primo luogo con l’illustre architettura del fronte posteriore di Santa Maria Novella, che domina con lo slancio dell’abside e del campanile tutta la piazza. La ravvicinata presenza del monumento fu uno dei principali motivi di polemica all’epoca della costruzione: coloro che si ponevano criticamente ritenevano impossibile un dialogo tra la nuova architettura “razionalista” e le antiche forme gotiche. Se l’orizzontalità della composizione volumetrica fu voluta per evitare il conflitto con il verticalismo dell’abside di Santa Maria Novella, la scelta della pietra tradizionale fiorentina per il rivestimento servì ad integrare l’edificio al tessuto circostante. Alla essenzialità del trattamento degli esterni è opposta la ricchezza dei materiali utilizzati all’interno, dove la policromia di marmi, vetri e metalli tocca anche le parti più strettamente funzionali.
Palazzina Reale
Prevista nel progetto 1932 per la stazione di Firenze del “Gruppo Toscano”, venne radicalmente riprogettata nelle forme attuali da Michelucci nel 1934. Destinata alla sosta e alla residenza temporanea del re e della corte, l’edificio, la cui architettura “in stile” appare lontana dal fluido razionalismo del Fabbricato viaggiatori, si caratterizza per il disegno raffinato, la preziosità dei materiali di rivestimento e la ricercatezza dei particolari e delle finiture. Il cuore dell’interno è il salone reale racchiuso tra due vestiboli, dalle salette particolari del re e dei ministri.
* fonti Archivio Fondazione Michelucci, per gentile concessione
In antichità la costruzione fu posseduta dagli Zati, che la vendettero nel 1563 a Giulio d’Alessandro del Caccia dai cui figli, nel 1603, l’acquistò Porzia di Tommaso de’ Bardi vedova di Niccolò di Francesco degli Alessandri. Restò agli Alessandri fino al 1854, quando il conte Carlo di Gaetano la vendette a John Temple-Leader, che la inglobò nei suoi vasti possedimenti sulle colline di Maiano e di Vincigliata. Alla sua morte fu ereditata da Lord Westbury. Nel 1907 Bernard Berenson (1865-1959) e la moglie Mary Pearsol Smith, che abitano la villa già dal 1900, decidono di acquistare la proprietà.
Al momento dell’acquisto la villa lascia molto a desiderare, il giardino si limita a gruppi sparsi di vecchi cipressi e ad una limonaia. Berenson in quel periodo comincia però a ricevere una retribuzione regolare dal grande mercante americano Joseph Duveen e pertanto può acquistare anche il terreno circostante. Questa e il giardino sono trasformati a partire dal 1909 da Cecil Pinsent e Geoffrey Scott, che furono introdotti dagli stessi Berenson nella ricca comunità angloamericana, all’epoca molto numerosa sui colli fiorentini.
Le Corbusier raccoglie e sistematizza in questo volume un vero e proprio manifesto per l’organizzazione della città nell’era della “civiltà meccanica”. Il libro non è soltanto un trattato tecnico di urbanistica, ma un’opera di carattere teorico e visionario: attraverso schemi, fotografie, disegni e prospettive, l’autore descrive la città ideale come organismo funzionale e ordinato, capace di garantire igiene, efficienza, razionalità e bellezza. La “città radiosa” di Le Corbusier è composta da grandi unità abitative immerse nel verde, da un sistema viario stratificato per separare i flussi di pedoni e veicoli, da spazi pubblici pensati come luoghi di incontro e di vita collettiva. La pubblicazione, realizzata in grande formato e riccamente illustrata, riflette l’intento pedagogico dell’autore: comunicare le sue idee non solo agli specialisti, ma a un pubblico più ampio di amministratori, tecnici e cittadini. Con questo testo, Le Corbusier si pone come figura centrale del dibattito internazionale sull’urbanistica, influenzando profondamente le politiche di ricostruzione e pianificazione urbana del secondo dopoguerra. Oggi La Ville Radieuse resta un documento imprescindibile per comprendere la visione modernista del rapporto tra architettura, città e paesaggio, e continua a sollevare interrogativi sulla validità e sui limiti delle utopie urbanistiche del XX secolo.
Oggi ad oltre 50 anni della sua realizzazione cosa è rimasto di quello straordinario programma?
Nel VI secolo a.C. approdò sulla costa flegrea, dove oggi c’è la città di Pozzuoli, un gruppo di greci fuggiti dalla tirannia di Policrate. Avevano lasciato la propria patria, l’isola di Samo, diretti verso l’Italia meridionale, dove fondarono una città, Dicearchia, che significa “governo-giusto”.
Dopo 25 secoli – siamo all’inizio degli anni ’50 del ‘900 – altri uomini, provenienti da parti diverse d’Italia, sono arrivati nello stesso luogo con un nuovo compito: contribuire con i loro progetti non solo allo sviluppo del Sud d’Italia, ma anche, umanizzando i processi produttivi dell’era industriale, a dare forma concreta ad una nuova e più giusta relazione tra capitale e lavoro.
Tra questi uomini vanno ricordati tre personaggi che furono protagonisti di quegli anni e che del futuro avevano una grande visione: l’imprenditore Adriano Olivetti, l’architetto Luigi Cosenza e il paesaggista Pietro Porcinai. Lo stabilimento verrà collocato sulla via Domiziana a pochi chilometri da Napoli, lungo quel tratto eccezionale di linea di costa flegrea denominato Arco Felice, dove al magnifico paesaggio dominato dal mare si sovrappone la stratificazione storica sedimentata in millenni di storia.
Afferma Adriano Olivetti il 25 aprile 1955 nel discorso d’inaugurazione dello stabilimento: “La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto”.
Nella produzione architettonica di Carlo Scarpa, il progetto per la chiesa di Nostra Signora del Monte rappresenta un episodio poco noto ma di grande interesse, che riflette la sua capacità di fondere tradizione e innovazione. Situato nella cornice suggestiva delle colline italiane, questo progetto si distingue per l’uso raffinato della luce e dei materiali, elementi chiave del linguaggio scarpiano. La chiesa, mai realizzata, si colloca all’interno della ricerca dell’architetto sulla spiritualità dello spazio, un tema affrontato anche in altre sue opere come il Cimitero di Brion. Scarpa concepì Nostra Signora del Monte come un luogo in cui il sacro e il paesaggio dialogano attraverso geometrie essenziali e una cura quasi artigianale dei dettagli. I materiali tradizionali, come la pietra e il cemento, vengono trattati con estrema sensibilità, mentre elementi architettonici quali scale, aperture e giochi d’acqua contribuiscono a creare un’atmosfera profondamente meditativa. Pur rimanendo un progetto sulla carta, Nostra Signora del Monte rappresenta un’importante testimonianza della poetica scarpiana, in cui ogni elemento architettonico è pensato per evocare contemplazione e armonia con l’ambiente circostante.
Oggi il lavoro di Scarpa viene reinterpretato come anticipatore di tematiche molto attuali, quali la sostenibilità dei materiali e l’importanza di un dialogo costante con il paesaggio. La sua attenzione artigianale alle lavorazioni locali viene riconosciuta come un modello di architettura responsabile, radicata nel territorio e capace di superare le mode effimere. La cura per la luce naturale e la relazione col verde acquisisce oggi valore strategico nella progettazione di spazi resilienti e nella valorizzazione dell’identità dei luoghi, anticipando tendenze come il landscape urbanism e la progettazione bioclimatica.
In parallelo, il lavoro di Edoardo Gellner—con opere come il villaggio di Corte di Cadore—viene ampiamente studiato come esempio di architettura integrata nel paesaggio alpino, capace di valorizzare la cultura costruttiva locale e di anticipare temi come la partecipazione della comunità e la gestione sostenibile dell’ambiente. Esperienze come quelle di Scarpa e Gellner dialogano oggi con una nuova generazione di architetti, che vede nella valorizzazione del contesto, nell’articolazione dei percorsi e nella modularità degli spazi elementi chiave per una progettazione sensibile ai cambiamenti sociali ed ecologici.
La poetica scarpiana, fondata sull’intersezione tra memoria, rito e innovazione, offre strumenti preziosi per affrontare i temi della rigenerazione architettonica e paesaggistica, soprattutto in aree fragili o minacciate dalla standardizzazione. Allo stesso modo, il metodo progettuale di Gellner, basato sull’ascolto delle esigenze collettive e sull’utilizzo sapiente di tecniche tradizionali, si rivela più che mai attuale in un panorama in cui l’architettura è chiamata a essere inclusiva, sostenibile e capace di dialogare con le risorse naturali.
Questa attualizzazione sottolinea come Scarpa e Gellner non siano soltanto figure storiche, ma punti di riferimento vivi per un’architettura italiana che intende salvaguardare il proprio patrimonio, reinventando il rapporto tra spazio costruito, paesaggio e società.
Dolomiti Contemporanee è nato nell’agosto 2011 poco dopo che le Dolomiti erano state riconosciute come Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO Da allora il progetto si è evoluto in un laboratorio di arte e cultura contemporanea che agisce come riconfiguratore spaziale e concettuale applicando uno sguardo critico e riattivatore al paesaggio montano Le Dolomiti non sono intese come un luogo atrofizzato dal turismo o come un contenitore di stereotipi alpini ma come uno spazio d’azione culturale vivo un grande cantiere di stimoli Il progetto si concentra sulla rigenerazione di luoghi disabitati o sottoutilizzati come l’ex Villaggio ENI di Borca di Cadore trasformandoli in centri di ricerca residenza e produzione artistica (luoghidelcontemporaneo.cultura.gov.it)
Nel 2025 Dolomiti Contemporanee ha proseguito il suo impegno con numerose iniziative. Detriti Frammenti Schegge Brecce una mostra inaugurata il 2 agosto 2025 a Casso che proseguirà fino al 31 dicembre 2025 esplorando le relazioni tra geologia memoria e pratiche artistiche (dolomiticontemporanee.net) Xilogenesi una mostra che si terrà dal 27 settembre 2025 al 6 gennaio 2026 all’Orto Botanico di Padova presentando opere di artisti come Alessia Armeni Giorgia Accorsi e Marco Gobbi (dolomiticontemporanee.net) Gemmazione Cristalli Sparsi l’Openstudio di Progettoborca tenutosi dal 25 al 27 ottobre 2024 ha visto la partecipazione di Fondazione Malutta e ha coinvolto la Colonia dell’ex Villaggio ENI e l’ex Stazione Ferroviaria di Borca creando un ponte tra il villaggio e la montagna (progettoborca.net) Stazionalini una serie di iniziative che a partire da ottobre 2024 hanno interessato l’ex Stazione Ferroviaria e la Bagagliera introducendo l’Openstudio 2024 di Progettoborca (fondazionemalutta.com) Space Days Vol 3 un progetto che ha unito arte paesaggio e scienza con esposizioni dal 5 luglio al 30 settembre 2024 a Campo Imperatore dal Gran Sasso alle Dolomiti (oa-abruzzo.inaf.it)
Queste iniziative confermano l’impegno di Dolomiti Contemporanee nel trasformare le Dolomiti in un laboratorio aperto in cui l’arte e la cultura contemporanea dialogano con il paesaggio la memoria e le comunità locali
Nel 1939 Ernst Junger – eroe della Prima guerra mondiale, durante la quale si era distinto per le imprese eccezionali, che gli avevano fatto guadagnare la Croce al merito, la più alta onorificenza prussiana – viene richiamato e messo a capo di una compagnia tedesca sul fronte occidentale, per attaccare la linea Maginot. “Giardini e strade” è il diario preciso e puntuale innanzitutto degli ultimi mesi di pace e di scrittura prima di essere richiamato, mesi in cui Junger si dedica ai suoi studi di filosofia e di entomologia. Segue poi il racconto della guerra vera e propria, della lunga marcia verso Parigi, la città amata da uomo e da intellettuale ma ora vissuta da conquistatore.
ISBN 978-88-235-1238-2
© Ernst Klett, Stuttgart 1979
© 2008 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Prima edizione digitale 2015
La storia dell’impresa Olivetti è la storia della produzione di un’idea organica, declinata quasi in ogni campo del sapere e dell’agire umano. Oggi di tutto quello che è stato resta ancora tangibile il suo essersi concretizzata in manufatti architettonici e raccontare forma e funzione di alcuni tra i più rappresentativi è un modo per rievocare il significato di questa idea. 1941: inaugurazione dell’Asilo nido Olivetti. Gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini applicano alla lettera l’autarchia nella forma di citazione elegante del genius loci di quella città costruita su colli che è Ivrea. Si fanno beffe della retorica dell’architettura littoria disegnando spazi funzionali, articolati in blocchi parallelepipedi, razionalisti, che hanno una pelle in pietra locale. Il giardino che asseconda le curve di livello delle rocce dioritiche, un pergolato i cui pilastri sono tagliati nella foggia dei pali in pietra che reggevano le viti, un tempo abbondanti in quelle terre e la vasca d’acqua, che non c’è più, in cui generazioni di bambini si sono divertiti sotto l’occhio attento delle educatrici. E poi gli interni, con una distribuzione calibrata sulle diverse attività che diventerà un modello e, disegnati appositamente, i giocattoli di legno come l’elefante-scivolo e le grandi ceste con le ruote per trasportare i piccoli ospiti.
La villa appartenuta alle Monache benedettine di San Martino fin dal XIV secolo, passò, nel XV secolo ad Antonio e Bernardo Rossellino e successivamente, nel 1610, a Zanobi di Andrea Lapi. Nel 1718 venne acquistata dai Capponi. Sono i Capponi che definiscono la villa nelle sue forme attuali, come appare nelle incisioni del XVIII secolo. In questo periodo compare: il giardino tergale, concepito come un cortile decorato a motivi rustici e posto ad un livello superiore rispetto all’edificio, l’aranceta, dove sono custoditi vasi d’agrumi, la lecceta, statue in pietra raffiguranti animali.
Nel corso dell’Ottocento numerosi furono i proprietari che si susseguirono, molti dei quali appartenenti alla ricca nobiltà europea. Fra questi Jeanne Keshko, moglie del principe Eugenio Ghyka-Comanesti, che acquista la proprietà nel 1896 tenendola fino al 1925. Durante la seconda guerra mondiale, la villa e il giardino subirono danni ingenti, tanto che quest’ultimo non era più riconoscibile. Nel 1954, sulla base di vecchi documenti, il proprietario Marcello Marchi iniziò un lungo restauro durato sei anni, che riportò la villa al suo antico splendore, dal 1994, gli eredi Zalum ne proseguono l’opera.